Guardiola, il “giochismo” alla rovescia
Josep “Pep” Guardiola non ha mai frequentato percorsi banali, dissimulando anzi a fatica una sofferenza interiore di fondo a fronte dello stress con cui è obbligato a convivere un allenatore che opera ad alto, perfino altissimo, livello. Ha sempre cercato di mantenere un salvifico distacco dal buio che può inghiottirti quando non riesci a camminare in equilibrio sull’orlo del precipizio, e non è stata causale la decisione di concedersi un anno di stacco totale quando lasciò il Barcellona dei trionfi: casa sua, certo, ma ormai troppo affollata di gente, ansie, aspettative, ricordi e, perché no, vittorie. Non è mica vero che ti abitui e che non te ne frega più nulla di vincere: se sei programmato per fare quella roba e se cresci dentro quella roba lì, se non vinci stai male. È un graffio nell’anima che viene fuori. Ecco: puoi aver vinto campionati in serie, aver dimostrato che la Champions non era solito merito di Messi, Xavi, Iniesta e fenomeni vari, ma se perdi 5 partite di fila ti crolla il mondo addosso. Perché quello non è il posto in cui sei abituato a stare e, neppure troppo in fondo, lo sai che avresti dovuto abbandonarlo. A Barcellona si decise a farlo, raccontano, quando si accorse che durante i “torelli” prima degli allenamenti o delle partite il pallone non “schioccava” più con il suono giusto. Il segnale di una stanchezza diffusa, del logoramento di uno spirito che alla fine riguardava anche lui.