TORINO - La sconfitta di Napoli, come da copione della narrazione calcistica, ha inevitabilmente innescato il “cupio dissolvi” intorno ai destini della Juventus, con particolare attenzione al cammino verso la qualificazione alla prossima Champions League, uno dei due obiettivi (insieme al pass per gli ottavi dell’attuale massima competizione europea) inseriti dalla dirigenza bianconera addirittura nel piano aziendale come obiettivi (minimi) stagionali. Ora, il ko del “Maradona’ ha certo determinato un calo della media punti di queste ultime 10 giornate, scesa a 1,3 a gara, ma non è che si dovesse attendere la prima sconfitta in campionato per certificare le incongruenze di questa nuova Juventus che, infatti, di punti ne aveva già lasciati per strada parecchi in conseguenza dell’ormai famoso problema dei pareggi in rimonta. Che prima dello sgambetto di Conte erano già costati 15 punti ai bianconeri.
Crisi Juve: la questione giovani
Proprio quell’instabilità avrebbe dovuto indurre a far scattare l’allarme Champions già in precedenza, altro che guardare il distacco dalla vetta della classifica. Almeno per due ragioni. La prima rimanda al fatto che nell’era dei tre punti i pareggi equivalgono a mezze sconfitte. La seconda, endogena, dopo che il problema si è riproposto con inquietante regolarità a testimonianza che quello delle rimonte subite e della fragilità rischiava di trasformarsi in problema strutturale. Mentale, emotivo e pure tattico. I primi due motivi afferiscono sostanzialmente al fatto che la Juventus ha una rosa giovanissima (al Maradona la seconda d’Italia con 24,3 dietro solo al Parma, contro la seconda più anziana, con 28 anni, dietro solo all’Inter: due filosofie diametralmente opposte) che fatalmente espone a ondivaghezze dovute all’emotività e alla mancanza d’esperienza. I giovani abbassano il monte ingaggi, favoriscono la crescita del player trading e dunque dell’equilibrio di costi e ricavi, ma “tolgono” in termini di continuità di rendimento.
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