TORINO - Qui non siamo in Sicilia e nemmeno nel 1860, al tramonto del Regno dei Borboni, lo scenario in cui è ambientato Il gattopardo! - il romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa - passato alla storia per la celebre frase “Se vogliamo che tutto rimanga com’è occorre che tutto cambi”. Qui siamo nel 2025, a Torino, periferia nord, dove si allena la Juventus, che aveva deciso di cambiare se non tutto, molto, con l’intento di modificare la strada che doveva portare allo stesso traguardo. Dunque arrivare alla competitività attraverso una gestione oculata, detta anche sostenibilità. Il problema è che qui Thiago Motta ha cambiato e ricambiato talmente tanto che alla fine nei giocatori ha iniziato, dopo questa shakerata di pensieri innovativi e rivoluzioni tecnico-tattiche lunga sette mesi, a sedimentarsi qualcosa di preoccupante: la confusione. Che è esattamente ciò che è emerso nella partita giocata e persa malissimo dalla Juventus contro il Benfica nell’ultima sfida del supergirone di Champions League. La sensazione netta che si è percepita è proprio quella di undici giocatori senza punti di riferimento, come se avessero perso la bussola, e quindi incapaci di decidere cosa fare per rendere al meglio e opporsi alla lucidità della squadra portoghese.
Juve, i troppi cambi hanno tolto certezze
Ma come spiegare questa “labirintite”in cui è caduto il gruppo bianconero? In gran parte con il fatto che Motta a forza di cambiare ha tolto certezze. Di sicuro c’è solo il modulo, ovvero difesa a 4, diga a due centrocampisti e tridente d’attacco (spurio, perché Koopmeiners non è un trequartista classico) e punta centrale. Dunque, spartito ripetuto di fatto per 32 partite ma con una girandola di interpreti tale da mandare nel caos anche giocatori fatti e finiti come Locatelli, il più esperto e tra i migliori mediamente in campo. Ciò nonostante, non a caso, si è macchiato di due errori gravi in area di rigore, con il Milan nella semifinale di Supercoppa a Riad e al Maradona con il Napoli, per due tiri dal dischetto in grado di neutralizzare il vantaggio acquisito rianimando così, rossoneri e azzurri, poi non a caso vincenti. Del resto se un direttore d’orchestra per sostituire il pianista ammalato decide di metterci un violinista che a sua volta deve essere rimpiazzato da un percussionista non ci si deve stupire se le stecche saltano all’orecchio. E in questa prima metà della stagione di sostituzioni atipiche ce ne sono state eccome, facendo perdere certezze ai singoli e abbassando la resa media collettiva.