TORINO - Neanche una freccia di Cupido avrebbe ingenerato nei tifosi un amore così rapido, funesto e genuino come quello che Veiga si è guadagnato in soli 270 minuti con la Juventus. L’immagine che riassume le sue prime tre uscite in bianconero è tutta racchiusa in un episodio a margine del match dell’altra sera contro il Psv, e cioè quella chiusura miracolosa su Til, lanciato da solo verso la porta di Di Gregorio. Il portoghese - completato l’intervento - si rialza subito in piedi, volge lo sguardo verso la Curva Sud e con occhi sgranati inizia a gridare come un matto, fomentando a più non posso il pubblico dello Stadium. Dentro quell’esultanza non c’è solo la tipica adrenalina delle notti di Champions, o la soddisfazione dietro un gesto tecnico rivelatosi decisivo, ma un forte ed encomiabile senso di appartenenza.
Veiga incarna lo spirito Juve
Sarà retorico e forse pure fuori luogo, ma pare che di spirito Juve ne abbia capito più lui in due settimane che tanti altri colleghi passati dalla Continassa negli ultimi anni. Da quando Motta ha deciso di scommettere su di lui per la sfida contro l’Empoli, Veiga non è mai più uscito dal campo. Tre partite da titolare - tra campionato e Champions - e tre vittorie, tutte diverse tra loro. Il portoghese ha rivitalizzato un reparto che, dopo le prime e convincenti uscite stagionali, ha attraversato una sorta di crisi mistica, la cui genesi risiede nell’infortunio di Bremer, l’unico giocatore di cui la Juventus - ad oggi - non può davvero permettersi di fare a meno. Ha portato lucidità, organizzazione ma anche pulizia nell’uscita palla al piede grazie alla sua qualità nei lanci lunghi, utilissimi per trovare soluzioni offensive e guadagnare tempi di gioco. Una ventata d’aria fresca per Motta che, una volta rientrato Kalulu, potrà finalmente innescare il meccanismo delle rotazioni, senza dover più chiedere straordinari ai propri centrali.