Tether, Ardoino esclusivo a Tuttosport: “Rifacciamo grande la Juventus”

Con Tether ha fatto 20 miliardi di utile solo negli ultimi 18 mesi, ha acquistato l’8,2% della Juve e sogna di rivederla ai vertici. Ecco le sue idee per riuscirci

Buongiorno Ardoino, vuole essere lei a presentarsi ai tifosi juventini, soprattutto quelli meno esperti di economia e finanza? 
«Sono un ragazzo nato nell’entroterra tra Alassio e Albenga, in un piccolo paesino di 600 persone. Mi hanno sempre considerato un nerd o un geek, insomma la mia passione sono sempre stati i computer. Da quando avevo 8 anni ho iniziato a programmare. Mi sono sempre piaciute la matematica e la fisica. Però sono sempre stato anche uno sportivo. Ho giocato a calcio per tanto tempo, ruolo centravanti e piedi abbastanza buoni. Ho giocato anche ultimamente, mi diverto ancora ogni tanto, cercando di non disintegrarmi e di non strapparmi, ma a 40 anni diventa sempre più difficile. Ho fatto mille altri sport, dal karate al nuoto. La Juve è sempre stata in famiglia, perché mio padre è tifoso juventino, e io l’ho seguito e sono sempre stato tifoso della Juve da fin da quando ero piccolo, fin da che mi ricordi. Sono cresciuto nel mondo della tecnologia, poi passato nel mondo della tecnologia finanziaria. Ho avuto la fortuna di incontrare un partner come Giancarlo Devasini, lui è di Casale Monferrato, che con me ha costruito due aziende molto importanti, di cui la più importante in questo momento è Tether. La definirei un’azienda semplice con, secondo me, valori molto profondi, valori di libertà, valori di opportunità anche per chi ha meno ed è meno fortunato. Noi ci concentriamo molto nei mercati emergenti, infatti il nostro prodotto si focalizza a portare soluzioni di inclusione finanziaria nei mercati nuovi. Qui abbiamo 400 milioni di persone che usano il nostro prodotto. Crediamo in una società che debba costruire cose utili per tutti, che danno opportunità a tutti. Abbiamo investito molto in società che spaziano sia dalla finanza, all’intelligenza artificiale a anche agricoltura. Anche perché io vengo da un passato contadino: i miei genitori e i miei nonni avevano una piccola azienda agricola a Cisano. E durante l’estate lavoro in campagna. Per il livello a cui è arrivata credo che Tether sia di quelle che nascono una volta ogni 100 anni. È un’azienda che è riuscita a cambiare il mondo della finanza dal basso. Cioè, non abbiamo mai chiesto capitali di investimento, non abbiamo mai parlato con venture capitalist, non abbiamo mai cercato sponsorizzazioni importanti. Noi quello che facciamo è andare nei villaggi in Africa, in Centro Sud America, in Asia e lavoriamo direttamente nelle strade con le persone, con chi ha un negozio, con chi in Africa, in un villaggio non ha neanche la corrente in casa. Costruiamo dei chioschi con pannelli solari sopra con delle batterie. Credo che il mondo sia un po’ stufo del mondo finanziario fatto da finanzieri che pensano solo alla creazione di maggior benessere per loro. Noi ad oggi abbiamo fatto una società che ha generato un sacco di utili, più di 20 miliardi negli ultimi 2 anni e mezzo e abbiamo distribuito agli azionisti quasi niente, perché tutto viene utilizzato per investire in società, per creare ulteriori opportunità per la nostra utenza che appunto sono i mercati emergenti. Noi siamo un po’, se vuoi, i Forrest Gump imprenditoriali e finanziari, però finora, devo dire che siamo stati premiati anche rispetto a tanti competitor americani. Sono orgoglioso di quello che abbiamo creato. Ci divertiamo, non la prendiamo ogni giorno come una battaglia. Siamo stati all’inferno e siamo tornati indietro, nel senso che la nostra storia è stata travagliata e per me è anche bella la sfida di… dare fastidio». 

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"La società deve ristrutturarsi"

Ha detto che in questi ultimi anni avete investito i vostri utili per creare ancora più opportunità, per creare ancora più ricchezza. L’investimento in Juventus si inserisce in questo discorso o è un altro tipo di affare? 
«Allora, secondo me la Juventus e in generale le società di calcio italiane hanno un potenziale enorme, sono innanzitutto tra i brand più conosciuti al mondo, ma questo potenziale non è molto sfruttato. Poi perché proprio la Juventus è facile: innanzitutto siamo tifosi della Juventus. Seconda cosa, la Juventus è una società che ha una numero enorme di tifosi, quasi infiniti e in questo momento, secondo me, manca il contatto con loro, manca la capacità di dialogare e utilizzare i fan nel modo giusto come strumento di supporto e aiuto alla crescita ulteriore della società. Cioè, coinvolgere i fan è il futuro, ovviamente in un modo sensato, non si può assecondare gli “allenatori in poltrona” che urlano e sbraitano contro la televisione, ma creare il giusto tipo di connessione con i tifosi è fondamentale. Noi, io la vedo dal mio punto di vista, quando appunto noi siamo sempre partiti dal basso. Mi piacerebbe applicare quello che abbiamo imparato in tante altre iniziative in cui abbiamo investito e sta funzionando molto bene. Se le squadre di calcio avessero un contatto più diretto con la base di tifosi e avessero modo di utilizzare nuove tecnologie per avere un contatto diretto con loro e costruire qualcosa di più concreto, secondo me sia il brand della Juve ne guadagnerebbe, sia i tifosi si sentirebbero più coinvolti, così il valore della società aumenterebbe». 
 
Qual è il progetto in concreto? 
«Sicuramente la società deve ristrutturarsi. In questo momento si è un po’ persa la rotta, almeno dal mio punto di vista. Sembra quasi che l’allenatore abbia perso il supporto della squadra. Sembra che i tifosi abbiano perso fiducia nell’allenatore, quindi bisogna ritrovarsi, la Juve deve ritrovare se stessa. Non dico che l’allenatore debba andare via, cioè non voglio, ripeto, fare quello che critica facile. Perché so com’è, facile criticare quando poi non sei tu a gestire direttamente gli affari. Però, secondo me, è evidente che c’è un problema di organizzazione, di supporto e di fiducia che va sistemato. Si può fare in mille modi, si può fare in tanti modi diversi questa cosa. Quindi non c’è un’unica soluzione, sicuramente deve partire comunque dalla dirigenza, ripeto, non vuol dire che la dirigenza deve essere cambiata, ma la dirigenza è quella che deve concentrarsi prima su se stessa, concentrarsi sulla squadra e cercare di stabilire di nuovo un rapporto di fiducia con i tifosi perché in questo momento mi sembra che sia veramente poco salda».  

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"La proprietà deve decidere qual è la strategia"

Quindi è un investimento di cuore o di portafoglio? 
«C’è sicuramente un punto di vista finanziario. Secondo me la Juve in questo momento è sottovalutata perché, appunto, c’è un problema di fiducia generale. Ha una potenzialità enorme per creare un collegamento con la tifoseria e di sfruttare nuove tecnologie, anche pagamenti tramite blockchain o altri strumenti digitali o intelligenza artificiale o mille altre cose che abbiamo già sperimentato in altri settori per creare ancora più coinvolgimento e per dare più forza al brand della Juventus. Questo permetterebbe al brand della Juventus ancora di più di salire in vetta le classifiche dei brand più amati, di conseguenza anche il valore della squadra di salire ancora di più e questo darebbe ancora più potenza di fuoco alla Juventus stessa, perché ovviamente se la società inizia a fare più incassi, più introiti, la società inizia ad avere un valore societario più alto, ha modo anche di reinvestire di più. Quindi non c’è una bacchetta magica, c’è tanto lavoro da fare, il problema va attaccato da tanti angoli diversi. Sicuramente dal punto di vista di organizzazione e fiducia, dal punto di vista della tifoseria, dal punto di vista tecnologico. Tante società estere stanno già lavorando su questi ambiti, però lo stanno facendo con risorse interne. Mentre qualche club italiano ha fatto l’errore di rivolgersi a società blockchain che sono arrivate e sparite da un giorno all’altro e hanno forse creato più danni rispetto a quello che hanno effettivamente portato. L’idea è che la Juve ha un brand tale, ha un’expertise tale, che deve avere una strategia a medio-lungo termine per sfruttare al meglio tutte le nuove tecnologie, per migliorare sia la comunicazione interna, sia l’efficienza interna, sia la comunicazione con la tifoseria, sia la comunicazione con nuovi fan che possono essere fuori, sia appunto la creazione di infiniti contenuti e utilizzare canali di distribuzione che non sono utilizzati in questo momento e che possono essere appunto piattaforme di blockchain, però tutte gestite direttamente dalla Juventus. Cioè il brand della Juventus non si può dare fuori, non si può smembrare e vendere a pezzettini a nuovi arrivati del settore che poi spariscono dopo due giorni dopo che hanno fatto un po’ di soldini a discapito della fanbase». 
 
Dalle sue parole mi sembra di intuire che vorrebbe, in qualche modo, contribuire con queste idee al rilancio della Juventus. 
«Allora, io credo che la nostra società possa dare una mano concreta alla Juventus. La vera domanda è se la Juventus vuole una mano concreta da noi. Cioè, noi siamo piccoli azionisti in questo momento. Io vedo su X la gente che mi dice “Eh, però sbrigatevi a sistemare le cose”. Abbiamo una quota piccolina, quindi facciamo il possibile, ci farebbe piacere aiutare, però sta tutto alla dirigenza e alla proprietà. Noi ci siamo fatti avanti, siamo qui, vogliamo supportare la squadra. Per noi è un investimento sicuramente veramente a lungo termine perché, ripeto, siamo dei tifosi, e crediamo nelle potenzialità enormi della Juventus, poi non siamo noi proprietari, quindi cambiare anche una virgola in questo momento è impossibile». 
 
Secondo lei la famiglia Agnelli deve rimanere indissolubilmente legata alla Juventus o può esistere una Juventus senza la famiglia Agnelli? 
«Mah, sicuramente la famiglia Agnelli è parte della storia della Juventus. Dipende. La domanda forse va fatta un po’ più a loro. Alla fine anche il Milan di Berlusconi poi non è più stato il Milan di Berlusconi». 
 
E non è andata proprio benissimo… 
«Beh, vero. Però bisogna sempre fare quello che è meglio per la società. La proprietà deve decidere qual è la strategia, cioè loro devono veramente pensare se vogliono continuare a sostenere la squadra e dimostrarlo con i fatti oppure vogliono cercare comunque un partner che li possa aiutare. Noi ci siamo in qualunque modo, ripeto, siamo qua per lungo termine e pensiamo di poter aiutare, pensiamo di poter far bene. Quindi sta a loro decidere in che misura e cosa fare alla fine». 

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Ardoino e lo slogan Make Juve Great Again

Avete mai sentito dirigenza o proprietà? 
«Ci sono state giusto un paio di comunicazioni, ma nulla di approfondito, direi, a questo punto».  
 
Ha percepito scetticismo o apertura per eventuali collaborazioni future? 
«Direi che abbiamo percepito un non sbilanciamento da parte loro. È chiaro che... Magari semplicemente vogliono capire chi siamo. Sai, ci sono tante persone con un po’ di soldini che possono investire, ma poi non sono seri, possono sparire dopo un giorno, dopo un anno. Ripeto, c’è tanto tempo, noi siamo qua. La proprietà deve però dimostrare di volersi concentrare sulla squadra, cosa che forse in questo momento i tifosi non percepiscono». 
 
Crede che quando la società era in mano ad Andrea Agnelli si percepiva più coinvolgimento da parte della famiglia? 
«Direi di sì, almeno quella era la mia percezione, la tifoseria percepiva di più il coinvolgimento quando c’era Andrea Agnelli. Poi capisco che ci sono state quelle problematiche…». 
 
Make Juve Great Again è il suo slogan, ispirato a quello di Trump. Che connessione c’è? 
«Nessuna connessione politica. Mi ha stupito che qualcuno lo veda in modo estremamente politicizzato e non ha senso per me, cioè non bisogna avere troppo paura delle parole. Fare di ogni singola parola una questione politica. Ogni tanto bisogna anche divertirsi e cercare di creare comunque dei messaggi positivi che ovviamente non devono essere subito presi in modo politico...». 
 
Le confesso che anche io ho intravisto una filigrana politica, è uno slogan con una connotazione molto forte in questo momento storico. 
«A me piace sdrammatizzare un pochino... cioè ridiamo per non piangere, cioè non so come dire, però il messaggio che vorrei dare è: non vediamo politica in tutto. Noi siamo una società, poi la gente ci vede più vicino a Trump. Abbiamo collaborato con l’amministrazione degli Stati Uniti, ma collaboriamo con tutti. Quindi a me piace l’idea di poter utilizzare parole che non fanno male a nessuno, perché delle parole solitamente, a meno di non usare parole veramente aggressive, non dovremmo aver paura. Però ti ringrazio per la tua onestà perché mi fa piacere che effettivamente mi dici che l’impatto iniziale è stato forse un po’ un po’ duro, però ripeto, non voleva esserci un discorso politico. Se ci pensi Trump, in quattro parole, ha creato un riassunto molto deciso del suo programma, cioè quindi il “Make Juventus Great Again” vuole solo prendere l’impatto del programma degli Stati Uniti… chi se ne frega. Non è che c’è un “voglio chiudere il confine col Messico”…»  
 
Semmai con la Fiorentina, visto che i passaggi di giocatori ultimamente sono stati poco convenienti… 
ride «Vero. Ma la bellezza di un messaggio conciso è che corrisponde a quello che pensano tutti gli juventini, cioè vogliamo che la Juve ritorni al successo del passato, è semplicemente quello il messaggio. Mi piaceva semplicemente il fatto che era super conciso». 

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"Resto molto legato alla Juve di Capello"

Un modo di comunicare nuovo. 
«Sì. Dopo che ho postato quel tweet, mi sono reso conto che manca forse il contatto diretto. Noi, ripeto, siamo piccoli azionisti, però manca il contatto di un azionista che scrive, che parla direttamente con i tifosi su Twitter, no? Cioè uno non troppo abbottonato, uno che magari ha voglia anche di dire una cosa stupida alla tifoseria perché in questo momento è arrabbiato, cioè non lo so, manca la partecipazione emotiva secondo me. E quindi quello che ho percepito è come tanti abbiano voglia di questo contatto più diretto. Negli Stati Uniti inizia a funzionare così. Da Zuckerberg a Musk stanno parlando col proprio pubblico direttamente perché si rendono conto che è fondamentale. E forse questo manca un po’ nel calcio italiano ed è qualcosa che prima o poi deve cambiare ed è una di quelle cose che sono estremamente semplici da cambiare. Cioè ci vorrebbe veramente poco per la dirigenza e la proprietà a mettersi un po’ più in gioco direttamente con i tifosi». 

 

Qual è la Juventus a cui è più affezionato? 
«Beh, quella di Del Piero, Cannavaro. Diciamo la squadra di Capello. E nonostante avessi già 18 anni, è forse la Juve che mi ha fatto più sognare. Sì, direi quella. Perché forse era il momento in cui io cercavo di creare qualcosa di mio e vedevo in loro un esempio di società affiatata, perché era la squadra perfetta dal punto di vista di spogliatoio, di rapporti tra di loro». 
 
Del ciclo dei nove scudetti c’è un giocatore o un momento a cui rimani molto affezionato? 
«Non così tanto come quando ero più giovane, però forse magari Dybala, sì, direi Dybala. Ronaldo, non mi ha fatto impazzire. Anche se ha segnato il gol di testa più bello della storia del calcio». 
 
Il fatto che vincere sia così importante per il tifoso della Juve e che, in certi casi, ne condizioni in qualche modo l’amore per la squadra è una cosa da cambiare secondo lei? 
«Sicuramente è facile salire sul carro dei vincitori. Dal mio punto di vista, non è tanto vincere o perdere per la Juve, ma è importante quando si perde dare una dimostrazione di grinta e di volontà di fare meglio. E questo è tutto solo dipendente dalla comunicazione. Ripeto se ci fosse comunicazione con meno filtri ci fosse un po’ più di dialogo... Cioè è normale sbagliare, non è che si può vincere sempre, è normalissimo sbagliare. Io con Tether, a un certo punto, ho ammesso i miei errori davanti a tutti». 

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"Non ho pranzato con Andrea Agnelli"

Ultima domanda di puro fact checking. Ha mai pranzato con Andrea Agnelli a Torino, come è stato scritto da più parti? 
«No, no. Non ho pranzato con Andrea Agnelli. Di me e della mia azienda se ne sono dette di cotte e di crude. Io credo che sia importante svegliarsi al mattino e guardarsi nello specchio. Poi la gente specula, la gente vede al di là di ogni singola cosa, come per lo slogan “Make Juventus Great Again”. Magari ti fai un pranzo e la gente ci costruisce chissà cosa sopra. Fa parte del gioco, ci sta». 
 
Va allo stadio ogni tanto? 
«Sì. Sono stato molto fortunato perché l’ultima partita che ho visto è stata Inter-Juve a San Siro. Secondo me quella è stata una partita bellissima, veramente bellissima. Poi siamo stati un po’ sotto, quindi a me piace stare sotto poi riuscire a rimontare». 
 
Stadium? 
«Sono venuto un paio di volte, ma sicuramente c’è il problema che viaggio una marea di tempo, ma cercherò di venire molto più spesso, soprattutto nei prossimi mesi». 
 
E poi avrà il mondiale negli Stati Uniti, quindi sarà più comodo. 
«Sì, poi mi metto il cappellino “Make Juventus Great Again” così mi picchiano immediatamente appena entro allo stadio (ride)».

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Buongiorno Ardoino, vuole essere lei a presentarsi ai tifosi juventini, soprattutto quelli meno esperti di economia e finanza? 
«Sono un ragazzo nato nell’entroterra tra Alassio e Albenga, in un piccolo paesino di 600 persone. Mi hanno sempre considerato un nerd o un geek, insomma la mia passione sono sempre stati i computer. Da quando avevo 8 anni ho iniziato a programmare. Mi sono sempre piaciute la matematica e la fisica. Però sono sempre stato anche uno sportivo. Ho giocato a calcio per tanto tempo, ruolo centravanti e piedi abbastanza buoni. Ho giocato anche ultimamente, mi diverto ancora ogni tanto, cercando di non disintegrarmi e di non strapparmi, ma a 40 anni diventa sempre più difficile. Ho fatto mille altri sport, dal karate al nuoto. La Juve è sempre stata in famiglia, perché mio padre è tifoso juventino, e io l’ho seguito e sono sempre stato tifoso della Juve da fin da quando ero piccolo, fin da che mi ricordi. Sono cresciuto nel mondo della tecnologia, poi passato nel mondo della tecnologia finanziaria. Ho avuto la fortuna di incontrare un partner come Giancarlo Devasini, lui è di Casale Monferrato, che con me ha costruito due aziende molto importanti, di cui la più importante in questo momento è Tether. La definirei un’azienda semplice con, secondo me, valori molto profondi, valori di libertà, valori di opportunità anche per chi ha meno ed è meno fortunato. Noi ci concentriamo molto nei mercati emergenti, infatti il nostro prodotto si focalizza a portare soluzioni di inclusione finanziaria nei mercati nuovi. Qui abbiamo 400 milioni di persone che usano il nostro prodotto. Crediamo in una società che debba costruire cose utili per tutti, che danno opportunità a tutti. Abbiamo investito molto in società che spaziano sia dalla finanza, all’intelligenza artificiale a anche agricoltura. Anche perché io vengo da un passato contadino: i miei genitori e i miei nonni avevano una piccola azienda agricola a Cisano. E durante l’estate lavoro in campagna. Per il livello a cui è arrivata credo che Tether sia di quelle che nascono una volta ogni 100 anni. È un’azienda che è riuscita a cambiare il mondo della finanza dal basso. Cioè, non abbiamo mai chiesto capitali di investimento, non abbiamo mai parlato con venture capitalist, non abbiamo mai cercato sponsorizzazioni importanti. Noi quello che facciamo è andare nei villaggi in Africa, in Centro Sud America, in Asia e lavoriamo direttamente nelle strade con le persone, con chi ha un negozio, con chi in Africa, in un villaggio non ha neanche la corrente in casa. Costruiamo dei chioschi con pannelli solari sopra con delle batterie. Credo che il mondo sia un po’ stufo del mondo finanziario fatto da finanzieri che pensano solo alla creazione di maggior benessere per loro. Noi ad oggi abbiamo fatto una società che ha generato un sacco di utili, più di 20 miliardi negli ultimi 2 anni e mezzo e abbiamo distribuito agli azionisti quasi niente, perché tutto viene utilizzato per investire in società, per creare ulteriori opportunità per la nostra utenza che appunto sono i mercati emergenti. Noi siamo un po’, se vuoi, i Forrest Gump imprenditoriali e finanziari, però finora, devo dire che siamo stati premiati anche rispetto a tanti competitor americani. Sono orgoglioso di quello che abbiamo creato. Ci divertiamo, non la prendiamo ogni giorno come una battaglia. Siamo stati all’inferno e siamo tornati indietro, nel senso che la nostra storia è stata travagliata e per me è anche bella la sfida di… dare fastidio». 

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