Motta, zero empatia e troppi cambi: tutti i perché del fallimento alla Juve

Le premesse erano ottime, ma l'esperienza di Thiago con la Vecchia Signora è finita nel peggiore dei modi: le ultime scene del dramma bianconero

TORINO - Il sorriso compiaciuto di Mbangula dopo aver gonfiato la rete del Como, all’esordio, gettato nella mischia tra lo stupore generale. L’esultanza quasi incredula di Savona, una settimana più tardi, in gol a Verona alla prima di tante da titolare. Le scene inaugurali avevano lasciato presagire tutto un altro film. E invece. E invece, sette mesi più tardi, la pellicola sulla Juventus diretta da Thiago Motta è già prossima ai titoli di coda. Il tecnico italo-brasiliano, beninteso, non si è dimostrato impreparato, dopo aver sorpreso con lo Spezia e poi lasciato tutti senza parole con il Bologna. Al punto che, nello stesso spogliatoio bianconero, in tanti sono pronti a garantire su un suo brillante futuro in panchina. Ma un promettente futuro, senza un solido presente, non ha vita lunga alla Juventus. E nell’immediato, quantomeno, Motta ha certificato di essere a corto d’esperienza. Nel gestire i rapporti interni e il confronto con giocatori di caratura mondiale, innanzitutto. Profili poco inclini a scendere a compromessi con metodi giudicati bruschi e con sonore reprimende di fronte a tutta la squadra, per esempio.

Motta e l'empatia mai trovata

Poi, certo, ci sono le attenuanti, a partire da una clamorosa serie di infortuni, non tutti di natura muscolare. A partire dai crack al crociato di Bremer prima e di Cabal poi, nel giro di un paio di settimane. La forte sensazione, però, è che l’andamento negativo della Juventus negli ultimi tempi si sia annidato intorno alla mancanza di empatia tra guida tecnica e giocatori. Con i secondi che mai hanno “giocato contro” il primo, che mai hanno tirato indietro la gamba. Ma che, settimana dopo settimana, hanno finito per smarrire sintonia con il progetto tecnico, destabilizzati da tanti e troppi cambiamenti. Nel modo di intendere lo sviluppo del gioco, improvvisamente più verticale da gennaio in avanti. Ma soprattutto nei ruoli, con elementi come McKennie e Weah che hanno finito per occupare almeno tre-quattro posizioni differenti in campo nel giro di poche settimane. E anche nei gradi, con la fascia di capitano che - da Gatti in avanti - ha girato per sette braccia differenti. 

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Le ultime scene del dramma Motta

Così si spiegano gli alti e bassi che hanno caratterizzato tutta l’annata, trend ondivago figlio anche della più che tenera età media del gruppo (una scelta ben precisa, però, non un’imposizione). Fino alle ultime tappe, dalla prematura eliminazione in Champions contro il Psv fino a quella persino ridicola per mano dei ragazzi dell’Empoli in Coppa Italia, che hanno portato all’attuale precipitare degli eventi. Alla luce di uno scollamento interno ormai evidente, in qualche modo certificato anche dalle scelte operate da Motta nell’ultimo turno di campionato a Firenze: Gatti e Cambiaso inizialmente in panchina, Yildiz e Vlahovic rimasti a guardare nonostante la necessità di provare a ribaltare la partita. Già, la trasferta al Franchi: un eclatante 0-3 che ha fatto il paio con lo storico 0-4 patito pochi giorni prima, allo Stadium, dall’Atalanta. Quelle che rischiano di essere le ultime due scene del film, più drammatico che romantico, diretto da Thiago Motta a Torino. 

Gli altri (rari) esoneri in casa Juve

Non serve una calcolatrice per appurare come l’esonero sia un vezzo piuttosto inusuale nella storia della Juventus. In 128 anni si contano infatti appena 5 allenatori allontanati dalla società, per motivazioni tecniche, a stagione in corso. O giù di lì, perché non è banale districarsi tra casistiche e aneddoti che affondano le radici nel tempo. L’eventuale esonero di Thiago Motta nelle prossime settimane, per certo, segue quelli che hanno avuto loro malgrado protagonisti Puppo nel 1956-1957, Brocic nel 1958-1959, Amaral nel 1963-1964, Carniglia nel 1969-1970 e, unico nell’era moderna, Ferrara nel 2009-2010 rimpiazzato da Zaccheroni. Annuari alla mano, poi, ci sarebbe anche Ranieri nel 2008-2009, sostituito proprio dall’ex difensore centrale nella coda di stagione. Ma “Sir Claudio” è un gran signore, si sa, dunque è d’uopo concedergli il beneficio del dubbio: "Non sono stato mandato via dalla Juve, racconterò la verità quando smetterò di allenare". Tra poco tutto verrà a galla.

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Con Allegri andò diversamente

E Allegri? Allontanato anche lui, certo, ma non per ragioni di campo. “L’esonero fa seguito a comportamenti ritenuti non compatibili con i valori della Juventus”, la nota ufficiale del club, meno di un anno fa, all’indomani della (vittoriosa) finale di Coppa Italia. Una vicenda che richiama vagamente l’addio a Carcano, il mitologico tecnico del “quinquennio”: nel corso della sua quinta stagione trionfale, correva il 1935, le voci sulla presunta omosessualità divennero troppo pressanti per essere gestite dalla società in piena epoca fascista. Nulla a che sparire con il rettangolo verde, anche in quel caso. Anzi. Talvolta, al contrario, a prendere la decisione di interrompere il matrimonio a campionato in corso è stato l’allenatore: il primo a dimettersi fu Ferrari nel 1941-1942, anche se l’addio più celebre resta quello di Lippi nel 1998-1999.

I 17 precedenti

Nel mezzo lasciò la Juventus e l’Italia anche Cesarini nel 1947-1948, mentre il caso più recente riguarda le divergenze alla base della decisione presa da Deschamps, all’indomani dell’aritmetica promozione in Serie A, nel 2006-2007. In tutto, ad allargare il campo d’indagine, si contano ben 17 stagioni portate a termine da un tecnico differente da quello scelto per iniziare. A volte anche per tragiche vicissitudini: Karoly nel 1925-1926 e Caligaris nel 1940-1941 scomparvero prematuramente da allenatori in carica, lo stesso Picchi nel 1970-1971 fu costretto a lasciare l’incarico pochi mesi prima di mancare a causa dei sintomi della malattia. E siamo a 15. Completano la casistica Bertolini nel 1951-1952, inizialmente scelto per cominciare la stagione in attesa che Sarosi completasse le pratiche burocratiche, e Korostelev nel 1961-1962, che all’avvento di Parola diede continuità al progetto restando nelle vesti di vice.

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TORINO - Il sorriso compiaciuto di Mbangula dopo aver gonfiato la rete del Como, all’esordio, gettato nella mischia tra lo stupore generale. L’esultanza quasi incredula di Savona, una settimana più tardi, in gol a Verona alla prima di tante da titolare. Le scene inaugurali avevano lasciato presagire tutto un altro film. E invece. E invece, sette mesi più tardi, la pellicola sulla Juventus diretta da Thiago Motta è già prossima ai titoli di coda. Il tecnico italo-brasiliano, beninteso, non si è dimostrato impreparato, dopo aver sorpreso con lo Spezia e poi lasciato tutti senza parole con il Bologna. Al punto che, nello stesso spogliatoio bianconero, in tanti sono pronti a garantire su un suo brillante futuro in panchina. Ma un promettente futuro, senza un solido presente, non ha vita lunga alla Juventus. E nell’immediato, quantomeno, Motta ha certificato di essere a corto d’esperienza. Nel gestire i rapporti interni e il confronto con giocatori di caratura mondiale, innanzitutto. Profili poco inclini a scendere a compromessi con metodi giudicati bruschi e con sonore reprimende di fronte a tutta la squadra, per esempio.

Motta e l'empatia mai trovata

Poi, certo, ci sono le attenuanti, a partire da una clamorosa serie di infortuni, non tutti di natura muscolare. A partire dai crack al crociato di Bremer prima e di Cabal poi, nel giro di un paio di settimane. La forte sensazione, però, è che l’andamento negativo della Juventus negli ultimi tempi si sia annidato intorno alla mancanza di empatia tra guida tecnica e giocatori. Con i secondi che mai hanno “giocato contro” il primo, che mai hanno tirato indietro la gamba. Ma che, settimana dopo settimana, hanno finito per smarrire sintonia con il progetto tecnico, destabilizzati da tanti e troppi cambiamenti. Nel modo di intendere lo sviluppo del gioco, improvvisamente più verticale da gennaio in avanti. Ma soprattutto nei ruoli, con elementi come McKennie e Weah che hanno finito per occupare almeno tre-quattro posizioni differenti in campo nel giro di poche settimane. E anche nei gradi, con la fascia di capitano che - da Gatti in avanti - ha girato per sette braccia differenti. 

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