“Motta-Juve, il fallimento si spiega così. Ci aveva provato con Maifredi”

Guglielmo De Feis, docente a Coverciano di Cultural Intelligence: cos’è e cosa c’entra Thiago

“Lezioni americane” di Italo Calvino è un’indagine sulle qualità che rendono una storia potente e duratura, per definire un’idea di letteratura che possa affrontare le sfide del futuro. Noi, molto più prosaicamente, vogliamo capire quali sfide deve affrontare il calcio, soprattutto italiano, e come può sostenerle. Guglielmo De Feis è docente di Cultural Intelligence a Coverciano nei corsi Master Uefa Pro, Direttore Sportivo, Psicologi dello Sport e Osservatori Calcistici. Lì dove la Cultural Intelligence è la capacità di relazionarsi e lavorare efficacemente negli ambiti interculturali e multiculturali. 
 
Cos’è la Cultural Intelligence? 
«La Cultural Intelligence è lo studio che permette di porsi di fronte alle differenze culturali, la capacità di mettersi nei panni altrui, di vedere le cose da un’altra prospettiva. Nel calcio gli staff sono cresciuti a dismisura e dentro questi ogni figura professionale ha spesso il suo punto di vista egoistico su come fare le cose. Differenze che si devono innestare le une nelle altre se si vuole che il gruppo raggiunga un obiettivo comune». 
 
Come si applica questa interpretazione all’Inter di Inzaghi e al Napoli di Conte? 
«Sono due allenatori che credono molto nella cultura dello spogliatoio e vi dedicano tempo. Conte è esclusivo, vuole essere seguito e lascia indietro chi non lo fa. Inzaghi sceglie prima e poi porta avanti tutti insieme, è inclusivo e lo ha dimostrato, per esempio, con Arnautovic e Zalewski». 

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Il fallimento di Motta alla Juve

La Cultural Intelligence può spiegare il fallimento di Thiago Motta alla Juventus? 
«In parte sì. La Juventus ha cercato di operare una trasformazione culturale. Ci aveva provato con Maifredi negli anni Novanta e ci ha provato con Sarri qualche anno fa, in entrambi i casi è seguita la restaurazione, con Trapattoni e con Allegri, dopo l’interregno di Pirlo. Questo tipo di trasformazioni, però, riesce bene dal basso verso l’alto, cioè dai settori giovanili, come ha fatto e fa il Barcellona, non dall’alto verso il basso». 
 
Il Barcellona di Flick visto con questa lente d’ingrandimento cosa esprime? 
«Flick è stato molto intelligente perché non ha provato a incidere sulla cultura del Barcellona, nata addirittura negli anni Sessanta con due allenatori inglesi provenienti dall’Ajax e portata avanti da Michels, Cruijff e Guardiola. Flick ha capito che il Barcellona ha giocatori straordinariamente tecnici e veloci negli spazi stretti, quindi gli ha accorciato il campo, grazie anche alla tecnologia che segnala il fuorigioco, facendoli giocare in 50 metri e prendendosi un rischio che l’Inter ha saputo interpretare al meglio, segnandogli 7 gol in due partite».

 

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La finale Champions tra Inter e Psg

Perché in Italia si preferisce parlare sempre dell’arbitro (leggi) invece che di campo (realtà)? 
«Magari si discutesse di leggi, discutiamo dell’interpretazione delle leggi, con i tifosi che vorrebbero che la legge fosse applicata ai nemici e, appunto, interpretata per gli amici. E se in un primo momento avevamo pensato che la tecnologia potesse aiutarci in questo oggi abbiamo la sicurezza che non è così e dove prima c’erano dieci episodi dubbi, adesso ce ne sono mille». 
 
La Cultural Intelligence come interpreta la dicotomia risultatismo-giochismo? 
«Per la Cultural Intelligence questa dicotomia non esiste perché non ragiona in termini di dilemmi. E curiosamente è la filosofia ‘giochista’ che rifiuta il confronto ritenendo il proprio approccio eticamente superiore, moralmente più valido e sportivamente più vincente. Ma dire che è importante giocare bene senza guardare al risultato cercando di dimostrarlo con i dati è una contraddizione abbastanza clamorosa». 
 
La finale di Champions League tra l’Inter e il Psg letta attraverso la Cultural Intelligence, cosa ci restituisce? 
«Da una parte un Psg multiculturale, non solo per i giocatori ma anche per Luis Enrique che, calcisticamente, ai tempi del Barcellona e della Spagna, esprimeva solamente una cultura olandese-catalana. Dall’altra l’Inter italiana, nella migliore accezione di questo termine, capace di interpretare le condizioni ambientali e sociali di una partita. L’Inter non va in campo per suonare la propria musica, ma per suonare l’avversario, adattandosi e reagendo alle difficoltà contingenti. Sarà una partita molto interessante».

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“Lezioni americane” di Italo Calvino è un’indagine sulle qualità che rendono una storia potente e duratura, per definire un’idea di letteratura che possa affrontare le sfide del futuro. Noi, molto più prosaicamente, vogliamo capire quali sfide deve affrontare il calcio, soprattutto italiano, e come può sostenerle. Guglielmo De Feis è docente di Cultural Intelligence a Coverciano nei corsi Master Uefa Pro, Direttore Sportivo, Psicologi dello Sport e Osservatori Calcistici. Lì dove la Cultural Intelligence è la capacità di relazionarsi e lavorare efficacemente negli ambiti interculturali e multiculturali. 
 
Cos’è la Cultural Intelligence? 
«La Cultural Intelligence è lo studio che permette di porsi di fronte alle differenze culturali, la capacità di mettersi nei panni altrui, di vedere le cose da un’altra prospettiva. Nel calcio gli staff sono cresciuti a dismisura e dentro questi ogni figura professionale ha spesso il suo punto di vista egoistico su come fare le cose. Differenze che si devono innestare le une nelle altre se si vuole che il gruppo raggiunga un obiettivo comune». 
 
Come si applica questa interpretazione all’Inter di Inzaghi e al Napoli di Conte? 
«Sono due allenatori che credono molto nella cultura dello spogliatoio e vi dedicano tempo. Conte è esclusivo, vuole essere seguito e lascia indietro chi non lo fa. Inzaghi sceglie prima e poi porta avanti tutti insieme, è inclusivo e lo ha dimostrato, per esempio, con Arnautovic e Zalewski». 

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