Guido VaciagoNon luogo a procedere. Il giuridichese non lascia spazio alla poesia, ma quelle quattro parole sono suonate come un verso dolcissimo che ha risvegliato Maurizio Arrivabene da un incubo. Potrebbe anche essere il titolo di un romanzo, kafkiano naturalmente, perché la vicenda che lo riguarda è surreale. Inchiesta plusvalenze, i magistrati indagano i vertici della Juventus e stilano un elenco di operazioni che, secondo loro, rappresentano violazioni o reati. Tutte le contestazioni hanno una data antecedente all’ingresso di Arrivabene in società, nessuna contestazione viene effettuata da quella data in poi. Arrivabene risulta, tuttavia, tra gli indagati. Un errore piuttosto banale, facile da confutare, una roba tipo: «Sì, ci scusi, ma sa, nella confusione» e finisce lì. Invece ci sono voluti tre anni per vedersi timbrare l’ovvio dalla giustizia ordinaria. Quella sportiva, di giustizia, nel frattempo gli ha affibbiato 16 mesi di inibizione: troppo complicato, evidentemente, confrontare le date per chi si vanta di essere celere. Mica gli puoi chiedere, a Piastri, di mettere la freccia quando sorpassa, no?
Buongiorno Arrivabene, cosa ha provato quando ha letto: non luogo a procedere?
«La fine di un incubo. Il riconoscimento della verità. Però non cancella quella sensazione provata ai tempi della condanna sportiva. La mattina dopo il processo, mia figlia tornava dall’estero, atterrata in Italia mi ha trovato sulle prime pagine di tutti i giornali, con la notizia della squalifica data come fosse la condanna di un criminale. Mi ha telefonato, scossa, e mi ha chiesto: “Papà, ma cosa è successo?”. E io non sapevo neanche come spiegargli la vicenda. Ecco, quella sensazione lì è stata brutta. Trattato come un criminale».
Ma, in sede di giustizia sportiva, non sono riusciti a spiegarle il perché di un errore così grossolano? Voglio dire: tutte le operazioni contestate sono antecedenti alla sua nomina, non ci vuole uno scienziato.
«Non lo so, eppure gli avvocati lo avevano spiegato bene, nella memoria difensiva era tutto scritto e documentato. E lo hanno detto anche in aula. Posso pensare che non abbiamo scritto in modo chiaro o che abbiano parlato troppo piano in aula, magari non gli hanno sentiti. Chissà...».
La vicenda giudiziaria
Qualcuno ha provato a spiegarle il perché della condanna o, meglio, dell’errore?
«No, nessuno. Ma credo che loro siano ancora convinti di aver fatto la cosa giusta. Invece vorrei sottolineare quanto detto da Andrea Agnelli dopo il patteggiamento, che non è un’ammissione di colpa. Così come le dimissioni del Consiglio di Amministrazione: all’epoca ci dimettemmo per consentire alla società di difendersi meglio e con più agilità, non perché ammettevamo di essere colpevoli. Non tutti l’hanno capito all’epoca».
Adesso c’è il procedimento al Tar.
«È, appunto, in corso, quindi non vorrei parlarne».
Cosa le rimane di questa vicenda?
«Che non ci può essere una giustizia sportiva intoccabile rispetto alla giustizia dello Stato. Lo Stato ci deve essere negli stadi, nei campi da tennis, nelle piscine e in qualsiasi altra forma di sport. Ovviamente si possono fare delle deleghe, ma queste deleghe non significano dare il potere totale, assoluto e autonomo. Fare giustizia significa anche fare le cose giuste».
È sempre tifoso della Juventus?
«Certo, mica si può cambiare casacca. Il calcio non è il mio unico amore, ne ho avuti tanti: i motori, il tennis, lo sci e anche il calcio. Da ragazzo andavo a giocare a pallone con la maglia della Juve. A Brescia! Capisce? A Brescia con la maglia della Juve. E non l’ho più tolta da allora».
"Mai pentito per Vlahovic"
Ha continuato a seguirla dopo la vicenda giudiziaria?
«Per qualche mese no, poi sì. Resto in contatto con molti giocatori, con Vlahovic, per esempio, ci mandiamo sempre dei messaggi. È un bravo ragazzo».
Mai pentito di averlo preso, quand’era dirigente?
«Mai. L’abbiamo preso in un momento in cui aveva segnato una valanga di gol. Non può essere scarso, non è scarso. Davvero! E i gol li ha sempre fatti. Forse ha pagato il fatto che la Fiorentina giocava per lui e la Juventus non ha mai potuto giocare per lui. Forse adesso se n’è accorto e ha cambiato un po’, mi sembra che giochi più sereno, più leggero. E sta andando bene. Quando ha fatto quel cross, contro il Borussia, quello per il gol di Kelly, sembrava dicesse: così vanno messe le palle in mezzo!».
Cosa vi scrivete?
«Niente di particolare, lo carico: gli dico quello che dicevo ai piloti della Ferrari. Piedi per terra e andare avanti».
È l’unico che sente?
«No, mi scrivo con Bonucci e con altri giocatori. Sono orgoglioso nel vedere che molti di quelli che abbiamo preso quell’anno siano ancora in squadra e facciano bene. Bremer, per esempio. È uno di pochissime parole, un po’ chiuso, ma fortissimo. E Locatelli! Ah, Locatelli... un gobbo vero. Uno juventino come ne ho conosciuti pochi, quando lo trattavamo con il Sassuolo lui non voleva sapere di nessuna altra squadra, voleva giocare con la Juve e basta».
Rimpianti?
«Vedere con un’altra maglia molti dei nostri gioiellini della Next Gen. Soulé, per esempio, che sta facendo benissimo a Roma, che peccato non averlo tenuto. E anche Fagioli. C’erano tanti talenti, tra l’altro in un momento in cui i talenti sono pochi. Mi rimane il ricordo di un discorso di Rui Costa, dirigente del Benfica, al pranzo Uefa prima della partita di Lisbona. Diceva che i bambini vanno lasciati liberi di giocare, nei prati, nei parchi, senza allenatori, senza vincoli tattici. Solo così nascono e si coltivano i talenti. Invece, da noi ci sono allenatori fin dalle elementari».
"Tudor mi piace, Allegri..."
Ricordi di calciomercato?
«La trattativa Bremer con Cairo. Mai incontrato uno così serio. Contratti stilati in modo professionale, nessun pizzino o foglietto. E lui, che ha trattato personalmente, si è letto tutto il contratto, clausola per clausola, naturalmente con piena coscienza di quello che leggeva. Ho un ricordo piacevole di quell’affare, al di là del calciatore che poi si è rivelato un campione».
Le piace Tudor?
«Sì, mi piace. Ma non fatemi parlare di tattica. Io sono un tifoso, io voglio che gli attaccanti la buttino dentro e i difensori salvino i gol. Del resto lascia parlare gli altri, ce ne sono tanti più intelligenti di me».
Che effetto le farà vedere Allegri che torna allo Stadium alla guida del Milan?
«Nessun effetto particolare. Non siamo più nel calcio in cui queste cose non accadevano, no? Voglio dire: si cambia maglia, si va e si torna. È un mondo di professionisti».
Lei è entrato ed è uscito dal calcio: da esterno a quel mondo, che idea si è fatto del sistema? Manca di managerialità?
«No, secondo me non manca di managerialità. Uno come De Siervo, per esempio, sta facendo cose buone e interessanti. Credo che il problema del calcio è che parla solo con se stesso. È un po’ autoreferenziale. Se penso ad altri modelli vedo maggiore apertura verso l’esterno. Il calcio, quello italiano in particolare, parla solo con se stesso. Non è salutare».
Sinner e Ferrari
Da giocatore di ottimo livello, da appassionato e da esperto di tennis: cosa pensa di Sinner e Alcaraz?
«Sinner è una bellissima cosa capitata allo sport italiano. Ma fatemi dire che tutta la nuova generazione, perché mi piacciono tutti, Sonego, Cobolli, Musetti, Darderi, Berrettini, devono qualcosa a Fabio Fognini. Sinner è un fenomeno e, se devo dire una cosa che non è stata detta su di lui, dico che il merito è dei genitori. Perché lo hanno sempre supportato, senza mai esagerare. Non sono i genitori che vanno in tribuna a insultare gli avversari e non sono neanche genitori che non si interessano. Sono la giusta via di mezzo, quelli che, magari, fanno saltare un allenamento al giovane Jannik per passare una serata insieme. Credo che da questo dipenda l’equilibrio di Jannik. Quando è tornato dopo tre mesi di pausa e ha giocato allo stesso livello di prima, come se non fosse successo niente, ho capito che è un fenomeno. Così come lo sta dimostrando adesso che è diventato numero due e lo ha trasformato in uno stimolo: straordi nario».
Qualcuno inizia a temere che Alcaraz abbia più colpi di Sinner.
«Ma no, stiamo calmi. Sono due campioni in evoluzione. Uno fa un passo avanti, poi lo fa l’altro, poi uno ne fa due, eccetera. Lo vedremo tra un po’ quello che diventeranno, adesso godiamoceli. Io, comunque, tifo Sinner».
Sulla Ferrari diciamo qualcosa o soprassediamo?
«Quando hai vissuto all’interno della scuderia, conosci certi meccanismi, certe difficoltà di carattere tecnico. Una supercar è fatta di 5000 componenti e hai quattro anni per metterla a punto. Una Formula 1 ne ha 50mila e hai sei mesi. Se commetti un errore te lo porti dietro per quasi tutta la stagione ed è difficile correggerlo. Vasseur è una persona serie e ne capisce. Io avevo la vita facile perché parlavo italiano e riuscivo a cogliere tutte le sfumature, tutte le parole e le idee di chiunque».
Ma il problema qual è?
«Siamo un po’ in ritardo sui compositi e sull’aerodinamica, perché i motori continuiamo a farli meglio di tutti. Gli inglesi nella zona di Oxford hanno sviluppato quel tipo di tecnologia e sono avanti. Quindi, per recuperare questo gap fatto di tradizione, ma anche di competenze e di Università che sono molto vicine alla produzione, dobbiamo lavorare parecchio. Noi però stiamo arrivando. Ci vuole pazienza, ma la Ferrari è sulla strada giusta. E quel tipo di progresso potrà servire anche al Paese, in Incghilterra ci lavorano trentamila persone, non è solo vincere le corse, è progredire a livello industriale».
La vicenda giudiziaria
Qualcuno ha provato a spiegarle il perché della condanna o, meglio, dell’errore?
«No, nessuno. Ma credo che loro siano ancora convinti di aver fatto la cosa giusta. Invece vorrei sottolineare quanto detto da Andrea Agnelli dopo il patteggiamento, che non è un’ammissione di colpa. Così come le dimissioni del Consiglio di Amministrazione: all’epoca ci dimettemmo per consentire alla società di difendersi meglio e con più agilità, non perché ammettevamo di essere colpevoli. Non tutti l’hanno capito all’epoca».
Adesso c’è il procedimento al Tar.
«È, appunto, in corso, quindi non vorrei parlarne».
Cosa le rimane di questa vicenda?
«Che non ci può essere una giustizia sportiva intoccabile rispetto alla giustizia dello Stato. Lo Stato ci deve essere negli stadi, nei campi da tennis, nelle piscine e in qualsiasi altra forma di sport. Ovviamente si possono fare delle deleghe, ma queste deleghe non significano dare il potere totale, assoluto e autonomo. Fare giustizia significa anche fare le cose giuste».
È sempre tifoso della Juventus?
«Certo, mica si può cambiare casacca. Il calcio non è il mio unico amore, ne ho avuti tanti: i motori, il tennis, lo sci e anche il calcio. Da ragazzo andavo a giocare a pallone con la maglia della Juve. A Brescia! Capisce? A Brescia con la maglia della Juve. E non l’ho più tolta da allora».