Gianluigi Buffon, leggenda del calcio italiano e oggi capo delegazione della Nazionale, è stato protagonista ieri a Frabosa Sottana, in Piemonte, dove ha ricevuto il premio Castagna d’Oro. Un riconoscimento che celebra non solo il campione del mondo del 2006, ma anche l’uomo simbolo di un’epoca del calcio azzurro. Nel corso della cerimonia, Gigi si è raccontato a lungo, ripercorrendo le tappe salienti della sua carriera, tra trionfi, delusioni e rinascite. Ma non solo calcio: l’ex portiere ha parlato anche del suo nuovo ruolo in Federazione, della crescita dei giovani e del futuro dell'Italia e lo spareggio che incombe. E infine ha toccato anche un tema delicato come gli scudetti vinti con la Juve negli anni di Calciopoli.
Buffon, i suoi primi anni e il rapporto con Ilaria D'Amico
"Sono stato molto indulgente fino ai 20-21 anni, perché fino a quell’età mi sentivo in diritto di commettere e imparare dai miei errori" - ha spiegato Buffon. Poi ha proseguito: "Era una sorta di bonus, che tuttora ritengo giusto essermi concesso, in quanto raggiungere la fama in gioventù non significava assumere automaticamente la postura di un uomo adulto. Nella vita ho sempre cercato di guardarmi allo specchio e di non abbassare mai lo sguardo: ho commesso errori, ma in buona fede, in maniera autentica. Sono sempre stato autentico. Mi sono anche vergognato degli sbagli fatti, però li ho sempre pagati in prima persona. Questa è la forma migliore di apprendimento. Questo è l’unico modo per diventare un uomo migliore”.
Su Ilaria D'Amico: “Mi è sempre piaciuto cavalcare la mia vita, la mia onda. Ogni tanto eccedere, ogni tanto stare in disparte. Del resto, quando ti esponi tanto rischi di cadere, perché a certe latitudini il vento soffia forte. Oggi sono molto più sereno e felice rispetto a quand’ero ragazzo. Ilaria è la componente fondamentale del mio equilibrio, della mia felicità - ha affermato Buffon -. Inoltre, diventare padre e non rappresentare solo se stessi comporta un sapersi moderare negli eccessi. La mia vera indole è quella del ragazzo che entra in campo. Lo era anche quando avevo 45 anni, perché mi consentiva di esprimere la mia arte professionale e chi fossi io come persona, foss’anche per mezzo di una lite con un compagno o di un abbraccio con un avversario”.