Berlusconi, nel calcio come lui nessuno mai: una vita sul tetto del mondo

Indimenticabile presidente del Milan più grande di sempre, personaggio e dominatore assoluto nazionale e soprattutto internazionale: il racconto incredibile

Nel calcio, come lui nessuno mai. E, a stabilirlo, non è soltanto la contabilità dei trofei allineati in 31 anni nella bacheca di Casa Milan: 8 scudetti, 5 Champions League, 2 Coppe Intercontinentali, 1 Mondiale per club, 5 Supercoppe Uefa, 1 Coppa Italia, 7 Supercoppe italiane. No. A rendere inarrivabile Silvio Berlusconi è stata la portata rivoluzionaria delle sue idee, dei suoi investimenti, delle sue campagne mediatiche ante litteram che hanno letteralmente cambiato i connotati del nostro mondo. Fin da quel giorno a Villa San Martino in Arcore, quando attaccò parlando dell’ineluttabilità di un campionato europeo per club (che cos’era, se non la futura Champions League?); dell’indispensabilità delle rose ampie per essere competitivi in ogni manifestazione in cui si scendeva in lizza; dei giocatori che mangiavano male (di lì a poco scatenò la guerra delle crostate e volle un nutrizionista in pianta stabile nello staff della prima squadra); degli arbitri che dovevano diventare professionisti per dirigere sempre meglio e pensare solo ad arbitrare e di molto altro ancora.

La prima volta, il Milan salvato

Era l’inizio di marzo dell’86. Il Dottore, che sarebbe diventato Cavaliere e poi Presidente, non soltanto del Milan, aveva appena salvato il Milan dal baratro del fallimento. Nel verde della residenza brianzola tenne la sua prima conferenza-stampa dopo averci accompagnato in visita alla meravigliosa pinacoteca, mostrato l’eliporto, indicato il campo da calcio regolamentare, scherzato, ma non troppo sul suo essere un allenatore scudettato poiché aveva vinto il campionato aziendale con la squadra dell’Edilnord. Oddio, conferenza si fa per dire. In realtà, quello fu il primo di una serie infinita di monologhi, non importa dove, non importa quando.

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A Milanello, a San Siro, a Madrid, a Tokyo, a Barcellona, all’Assassino, il ristorante milanese del mitologico Ottavio Gori dove si faceva notte dopo le partite di Coppa. Con Berlusconi, fra gli altri si attovagliavano Adriano Galliani, Ariedo Braida, Cesare Maldini, il ragionier Carlo Montanari, mentore del settore giovanile, Guido Lajolo, onnipresente cronista della Notte, per un quarto di secolo campione mondiale di presenza a Milanello dove noi dicevamo che, accanto al busto di Nereo Rocco, un giorno o l’altro avrebbero eretto il suo.

Le notti e gli aneddoti di Silvio Berlusconi

All’Assassino, il copione era consolidato: il presidente a capotavola, i cronisti che lo tampinavano stavano seduti a un desco non lontano. C’erano spesso Alberto Cerruti, Germano Bovolenta, Alberto Costa, Furio Fedele, Sandro Sabatini, per citare i più assidui. “Ragazzi, mi raccomando eh: stasera non parliamo di calcio”, sorrideva Berlusconi. Dopodiché, verso l’una, Silvio si spostava di tavolo e si tiravano almeno le due, parlando ovviamente solo e soltanto di calcio, di Milan, di Gullit, Van Basten, Sacchi, Capello, eccetera eccetera. Davvero formidabili quegli anni del primo settennato perché poi, nel ’94, Silvio discese in un altro campo e solo la grandezza di Galliani, fiero di essere sempre stato il Numero Due del Numero Uno, continuò a fare grande il Milan.

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Anche se quel primo periodo berlusconiano fu reso indimenticabile. Gli elicotteri del raduno all’Arena che, secondo gli invidiosi, sarebbero serviti alla squadra per fuggire al termine della stagione. La scelta di Sacchi, capace di stregare l’uomo di Arcore vincendo con il suo Parma a San Siro e di costruire la Squadra Perfetta che stupì il mondo e sul tetto del mondo salì. Lo scudetto ’88, vinto in rimonta sul Napoli maradoniano. I 90 mila milanisti in delirio al Camp Nou sotto gli occhi esterrefatti di Valentin Ceausescu circondato da venti guardie del corpo tutte uguali, scarpe bianche, impermeabili grigi, sguardo in tralice. La volta che i rossoneri pareggiarono al Bernabeu, inchiodando il Real sull’1-1, ma mettendolo per 24 volte in fuorigioco. A Sacchi che, dopo la partita, vide comunque immusonito, Silvio disse: “Ma Arrigo, mi spiega come mai non è contento? Si rende conto della partita che abbiamo fatto?”. E Arrigo: “Sì, presidente, ma al 21’ del primo tempo Van Basten non ha fatto la diagonale che voleva io”. E l'altro: "Ah, ecco, ora capisco". E scoppiò a ridere.

Borghi, l'Argentinos Juniors, l'Old Trafford e Sacchi

E quando, quarantotto ore dopo lo scudetto, dopo la festa a San Siro con i tifosi pazzi di gioia, venne l’alba del 17 maggio ’88, soltanto Arrigo poteva organizzare un blitz a Manchester come organizzò quel blitz. Partenza alle 7 dalia pista Ata di Linate, sbarco nella città di Sir Bobby Charlton che venne all’aeroporto ad accogliere i neo Campioni d’Italia, partita all’Old Trafford davanti agli esterrefatti, incantat inglesi che, alla fine, si alzarono n piedi per applaudire la squadra italiana, capace di imporsi per 3-2. Un flipper, un magico flipper: ecco che cos’era quel Milan sacchiano e poi capelliano benedetto dall’uomo che, insediandosi in Via Turati aveva annunciato: “Diventeremo la squadra più forte del mondo”. Bum, dissero frustrati e invidiosi, salvo doversi inchinare quando la “mission”, così la chiamava Silvio concedendosi il narcisismo vezzo anglofilo quando l’invasione lessicale d’Oltremanica era ancora molto di là da venire. La partita di Manchester fu organizzata anche per provare Claudio Borghi, di cui Berlusconi si era calcisticamente innamorato vedendolo in azione con l’Argentinos Juniors nella finale dell’Intercontinentale vinta dalla Juve ai rigori con uno strepitoso e decisivo Platini. Borghi all’Old Trafford fu meraviglioso: segnò due gol in otto minuti, dettò un assist, fece la rabona, uscì fra l’ovazione del pubblico. In nottata rientrammo a Milano dall’Inghilterra. Il giorno dopo, a Milanello, Berlusconi era euforico. Incrociando Sacchi, sbottò: “Arrigo,visto che Borghi?”. E Arrigo, gelido: “Sì, bella partita. Ma io voglio Rijkaard”.

Braida spinse per Van Basten su Rush

Fu così che Braida volò a Lisbona per prendere Frank, facendogli stracciare il contratto con lo Sporting e scatenando una grana internazionale. Borghi, invece, finì malinconicamente in prestito al Como. Braida, che quando Silvio voleva prendere Rush, gli disse: “Presidente, dia retta: Van Basten è meglio”. E il MIlan prese Van Basten. Perché Berlusconi presidente del Milan era così: “Se gli altri sono concavi, io mi faccio convesso; se diventano convessi, io mi faccio concavo”. Quando poteva, atterrava a Millanello anche due volte al giorno e Antore Peloso, leggendario direttore del centro sportivo, cominciava simpaticamente a sudare freddo perché ogni volta il Dottore ne aveva una: “Via quelle piante dal salone del caminetto, ritinteggiate le pareti di rosso e nero e vogliamo parlare della ghiaia sul piazzale? Ce n’è troppa, dai”.

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L’esteta di Arcore amava il bello per il bello e aveva il gusto del particolare. La gestione dei momenti di crisi era il suo pezzo forte. Gennaio ’88, il Milan perde a Cesena, gol di Holmqvist, Sacchi traballa. Il giorno dopo a Milanello arriva il megavan del presidente. Era il suo ufficio viaggiante. L’autista lo pianta sul piazzale e ii presidente comincia le consultazioni: sei anni dopo ne avrebbe fatte altre, per Palazzo Chigi,. A uno a uno, Berlusconi confessa tutti: giocatori, dirigenti, Peloso, cronisti sempre al seguito della squadra. Prima di decidere voleva sapere, capire, indagare. Alle dieci e mezzo della sera chiamò anche me. Chiese: “Scusi, Jacobelli. Che cosa pensa di Sacchi. Lei lo terrebbe?”. Risposi: certamente sì. Scoprii poi che la stessa domanda era stata rivolta agli altri colleghi presenti. Sacchi rimase, il Milan vinse lo scudetto e cominciò a volare.

L'aereo taxi per giornalisti e il passaggio per Milano

A proposito: avete presente il Gulfstream, l’aereo privato con cui Silvio si spostava? Erano i tempi del Trio Tulipani e, non sazio di rimirarli giocare nel Milan, quando Gullit, Rijkaard e Van Basten andavano in Nazionale, Silvio diventava un tifoso dell’Olanda. E che cosa fa un vero tifoso dell’Olanda? Va a vedere l’Olanda anche in trasferta. Come quella notte a Oporto, dove Van Basten fece mirabile in maglia arancione, stendendo il Portogallo. Dopo la partita, negli spogliatoi, Berlusconi incrociò i tre cronisti italiani presenti. Chiese: “Ragazzi, volete un passaggio?”. Risposta: grazie, presidente, ma stiamo aspettando il taxi che ci riporterà in albergo”. E lui: “Macché taxi, a Milano vi riporto io con i ragazzi”. Fu così che tornammo a Milano, in volo con Berlusconi e i ragazzi: Ruud, Frank e Marco.

Liedholm e Capello, lo scambio col Barone

L’abilità del Grande Comunicatore emergeva nei momenti più delicati, quando amava gigioneggiare e gli riusciva bene. Quasi sempre. Il giorno prima che Liedholm perdesse a San Siro e un sasso mandasse in frantumi il vetro della sua panchina, Berlusconi a Milanello dispensò sorrisi a destra e a manca. Davanti al plotone di cronisti che avevano capito l’antifona e intuivano quanto il Barone avesse le ore contate, Silvio lo volle accanto a sé e disse: “Nils, ha sentito questi cattivoni di giornalisti? Dicono che, se domani il Milan perderà, io la caccerò. Mi dia una mano…”. Imperturbabile, come solo il grande svedese sapeva essere, Liedholm allungò la mano al presidente, salutò e se ne andò. Silvio, pronto: “Visto? Che classe”. Due giorni dopo Fabio Capello, in rampa di lancio con la sua Primavera e la Polisportiva Mediolanum, divenne il nuovo allenatore del Milan.

La fatal Verona e il Milan intoccabile

Nel ’90, Silvio digerì a fatica la fatal Verona che gli costò lo scudetto. Era furibondo con il Palazzo, anche se cercava di non darlo a vedere. Fu allora che martellò, un giorno sì e l’altro pure, con il motto della casa: “Dobbiamo essere più forti di tutto: degli avversari, della sfortuna, dell’ingiustizia”. E degli arbitri! sibilò un astante. “E anche degli arbitri, cribbio”. Fu una delle rare volte in cui perse le staffe in pubblico. Ma guai a toccargli il Milan. Guai.

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Nel calcio, come lui nessuno mai. E, a stabilirlo, non è soltanto la contabilità dei trofei allineati in 31 anni nella bacheca di Casa Milan: 8 scudetti, 5 Champions League, 2 Coppe Intercontinentali, 1 Mondiale per club, 5 Supercoppe Uefa, 1 Coppa Italia, 7 Supercoppe italiane. No. A rendere inarrivabile Silvio Berlusconi è stata la portata rivoluzionaria delle sue idee, dei suoi investimenti, delle sue campagne mediatiche ante litteram che hanno letteralmente cambiato i connotati del nostro mondo. Fin da quel giorno a Villa San Martino in Arcore, quando attaccò parlando dell’ineluttabilità di un campionato europeo per club (che cos’era, se non la futura Champions League?); dell’indispensabilità delle rose ampie per essere competitivi in ogni manifestazione in cui si scendeva in lizza; dei giocatori che mangiavano male (di lì a poco scatenò la guerra delle crostate e volle un nutrizionista in pianta stabile nello staff della prima squadra); degli arbitri che dovevano diventare professionisti per dirigere sempre meglio e pensare solo ad arbitrare e di molto altro ancora.

La prima volta, il Milan salvato

Era l’inizio di marzo dell’86. Il Dottore, che sarebbe diventato Cavaliere e poi Presidente, non soltanto del Milan, aveva appena salvato il Milan dal baratro del fallimento. Nel verde della residenza brianzola tenne la sua prima conferenza-stampa dopo averci accompagnato in visita alla meravigliosa pinacoteca, mostrato l’eliporto, indicato il campo da calcio regolamentare, scherzato, ma non troppo sul suo essere un allenatore scudettato poiché aveva vinto il campionato aziendale con la squadra dell’Edilnord. Oddio, conferenza si fa per dire. In realtà, quello fu il primo di una serie infinita di monologhi, non importa dove, non importa quando.

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