Torino, Lentini compie 50 anni: «Caro Cairo, riprendimi»

L'ex calciatore granata: «Per il Toro io ci sono sempre: e capisco in fretta se un giocatore è buono»
Torino, Lentini compie 50 anni: «Caro Cairo, riprendimi»

TORINO - Il mezzo secolo dell’uomo più amato dalla tifoseria granata negli ultimi trent’anni. Amore che prima è stato innamoramento, infatuazione nei confronti di quell’ala dai capelli lunghi e il dribbling secco, poi amore a tutto tondo. Gigi Lentini e i tifosi del Toro si sono fidanzati in giovane età. Quindi si sono burrascosamente lasciati e infine ritrovati in una fase più matura. Quella in cui perdonati gli sbagli ci si lascia andare a un sentimento magari pacato, ma che si accende nel ricordo dei momenti più belli trascorsi assieme: la doppia sfida contro il Real Madrid, gli esordi con Radice per un ragazzo-del-Fila, l’azzurro indossato con sotto la maglia granata (l’esordio, con Azeglio Vicini, il 13 febbraio 1991 in un’amichevole contro il Belgio).

Gigi Lentini: tanti auguri dalla redazione di Tuttosport per i suoi 50 anni, innanzitutto.
«Vi ringrazio. Taglio il traguardo da uomo sereno e tranquillo: sono consapevole di essere stato una persona fortunata».

Perché, ora non lo è più?
«No, anzi. Voglio dire che ho potuto realizzarmi in ciò che più mi è piaciuto fare, cioè giocare a pallone. Alcune cose mi sono riuscite bene, altre meno, ma indietro non si torna».

Balziamo all’oggi: come va con la produzione e vendita di miele della sua azienda?
«Bene, non è un ambito semplice, ma stiamo iniziando a entrare nel mercato. Abbiamo un milione di alveari, e per quanto la quantità di miele dipenda da stagione a stagione la produzione è importante. Di buono c’è che il prodotto, se ben conservato, non scade».

Un po’ come la passione della tifoseria nei suoi confronti. Lei è consapevole di chi sia e cosa rappresenti “GigiLentini” per i granata?
«Sì e con forza. La avverto quando vado in qualche Toro Club o anche solo a cena al ristorante: sono ancora riconosciuto, molti mi chiedono un autografo o una fotografia».

E lei come reagisce?
«Ne sono felice, è la conferma che ho dato un contributo importante al club per cui tifo. E’ gratificante, e questo riguarda pure i miei ex compagni, essere ricordati a distanza di tanti anni».

Sempre avuto un buon rapporto, con foto e autografi?
«No. Durante l’attività la presenza era asfissiante. E se dopo una sconfitta i tifosi mi vedevano in giro era un problema. Si attaccava con la storia del calciatore che si allena male e non ci tiene».

Nulla in confronto alle critiche subite quando passò al Milan per la cifra - al tempo ritenuta da molti assurda - di 18,5 miliardi di lire.
«Io ero legato al Toro al punto da essere fortemente tentato di non trasferirmi in rossonero, nonostante la differenza di ingaggio tra le due realtà. Gli amici e la famiglia sono stati importanti, nella scelta presa. E che rifarei. Sono passato in quella che al tempo era la squadra più forte al mondo, e ribadisco di aver deciso sia per ragioni economiche che professionali. Al Milan potevo vincere e ho vinto, in granata sarebbe stato più difficile. Il calcio è un lavoro: l’ho capito a fine carriera. E poi, lo sapete anche voi, quel Toro di Borsano - dopo Amsterdam - aveva bisogno di soldi».

Per molti anni l’appartenenza al club è stato tuttavia un valore, nel calcio. Si sente lo spartiacque tra due epoche pallonare?
«Rispondo così: una sera in un club del Piemonte si insiste a rievocare il mio passaggio al Milan, io mi faccio dare il microfono e al centinaio di tifosi presenti chiedo: alzi la mano chi tra voi si sarebbe comportato in maniera diversa dalla mia? Ebbene le mani sono servite a ricevere un applauso di un quarto d’ora».

Dopo 4 anni di Milan, perché l’Atalanta?
«Perché al Milan non riuscivo a togliermi di dosso l’etichetta del calciatore che non si era ripreso dopo l’incidente. L’Atalanta ha rappresentato una svolta, con Mondonico sono riuscito a disputare un campionato con continuità e mi sono levato quel pregiudizio».

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