© LAPRESSETORINO - 4 maggio 2019, ore 10.15. Maria è in braccio al nonno, dietro alla basilica di Superga. Con la bocca spalancata: fissa il volto segnato, fissa la lapide, ripianta gli occhioni sgranati ben dentro quello sguardo acquoso, umido. Ascolta, attratta da un ancestrale magnete. Ha tre anni, è affascinata: la storia del Grande Torino è una favola magnifica. Ne coglie la magia e la malìa, che la infiammano di stupore e di tragedia. Non può ancora capire tutto, ma il seme dentro lei da ora crescerà per sempre. Maria sono stato io, tanti anni fa, per mano a mio papà. Sei stato tu, in braccio alla mamma. O allo zio, alla nonna, al fratello.
I bambini, i tantissimi eredi granata sono la fotografia di questo settantennale. E il suo significato più profondo. I bambini in processione lassù, i bambini che lasciano il loro messaggio al murales di Tuttosport ai piedi della Mole, i bambini al Filadelfia, in Duomo. Siamo noi: di ieri, di oggi e di domani. La salita pedagogica al colle è cominciata prima, è proseguita dopo. Fittissima, ininterrotta in questi giorni di celebrazione. Però è di sempre, accade ogni giorno dell’anno, di ogni anno, dal 1949.
Ciascuno ha ricevuto il dono del Grande Torino, il suo miracolo: folle di innamorati che vibrano di commozione, che piangono, che adorano quei 18 ragazzi uccisi tutti assieme nella primavera della vita; e adorano i tecnici, i giornalisti, gli uomini dell’equipaggio uniti nello stesso, tragico destino. Dopo settant’anni. E sono innamorati, commossi, vibranti ogni volta di più. Un sentimento contagioso, un affetto potente che percorre il mondo abbattendo prima di tutto la stupidità, lo squallore, l’ignoranza. Dal River Plate al presidente della Repubblica, dal Benfica a tutte le squadre italiane: tutte, dagli “amici” della Fiorentina agli storici “nemici” della Juventus. Non è soltanto il doveroso culto di una mortale tragedia e nemmeno la semplice celebrazione di inarrivabili campioni. C’è la potenza identitaria e unitaria che il Grande Torino sprigionò nel modo e nel momento giusto, quello del bisogno, fino al compimento dell’estremo sacrificio. Non fatalità, bensì destino. Che doveva compiersi, ineluttabile. Superga fu, per certi versi, l’ultimo atto cruento della guerra e del dopoguerra. I funerali solenni chiusero quelle pagine sanguinose: assieme agli Invincibili, ogni italiano seppellì i propri caduti, sotto qualsiasi bandiera avessero combattuto. S’iniziò la lunga pacificazione, l’ultimo passo dell’unità d’Italia. E il 1950 può considerarsi il primo anno della lenta ma costante ripresa economica. Un patrimonio immenso, per i cuori granata; un debito per l’Italia e gli italiani. Un bene prezioso che si rinnova con tutta la forza dei valori che protegge e diffonde, ben oltre i confini del calcio e dello sport. Vedere tanta gente e soprattutto tanti bambini ricevere questa inestimabile eredità per portarla lungo le strade della vita, be’, dona una speranza sconfinata. Specie quando valori, morali e materiali, scarseggiano, dispersi nella tribolazione quotidiana. Non placa la struggente tristezza per la perdita, né le nostre insopprimibili lacrime, ma le spiega e dà loro un senso. Non c’è vittoria, nessun trofeo varrà mai altrettanto. E’ la Coppa del Cuore Granata: ogni tifoso del Toro ne porta una dentro. Ieri mattina, la piccola Maria ha ricevuto la sua. Tante ne distribuirà a sua volta. E’ il miracolo del Grande Torino: non si spiega, si vive. Grazie, Eroi di Superga. Grazie, Maestri di speranza.
