Paolo Poggi esclusivo: "Venezia e il mio filo Toro"

Il dt del Venezia: «Io granata, privilegio e storia, come quei gol alla Juve. Che ferocia con Juric!»
Paolo Poggi esclusivo: "Venezia e il mio filo Toro"© www.imagephotoagency.it

Paolo Poggi, oggi lei è dt del Venezia che domani a­ffronta il Torino quasi vent’anni dopo l’ultimo scontro diretto in Serie A. Ventotto anni e mezzo fa, invece, lei nel giro di tre settimane stampò due strepitosi gol di sinistro nella porta di Peruzzi, subentrando in entrambi i derby di Coppa Italia, e decidendoli, portando in finale il Toro di Mondonico che poi la vinse. Come Pjaca, più di Pjaca, altro che Pjaca. «Ricordo tutto nitidamente, come fosse ora. La sponda di Casagrande di testa nell’andata e il mio gancio volante, di prepotenza, in mezzo a tre difensori juventini. Il cross di Annoni nel ritorno, il tiro al volo incrociato anticipando Galia che rinculava. La corsa sotto la Maratona. Con la felicità incredula e l’incoscienza dei miei 21 anni. Non li dimenticherò mai, quei gol. Come io e miei compagni non avevamo dimenticato la beffa nel derby di campionato, perso a tempo scaduto su autorete di Venturin. Avevamo un motivo in più di rivalsa. Giocammo con una foga agonistica bestiale».

I tifosi granata cominciarono a chiamare Poggi Paolino. Paolino come Pulici. «Ancora adesso, quando mi capita di incontrare o di parlare con dei granata – e sono tanti, eh: anche a Venezia – figurati se non mi ricordano o non mi fanno raccontare quella roba lì. Mi resi conto subito di essere entrato nel cuore della gente. Già solo giocare, aver giocato nel Toro ti dà quel senso di privilegio, di aver fatto parte non solo di una squadra ma della storia. Con tutto il rispetto per gli altri, una cosa del genere non si può dire di molti: il Toro ricopre un significato speciale nel calcio». Altri flash granata che le illuminano la memoria. «Il mio arrivo, nell’estate del ‘92. La prima volta fuori di casa, praticamente. Avevo fatto tutto a Venezia: dalle giovanili alla C alla B. Mi fa cercare Moggi, mi convoca a Milano, mi vede e mi fa: “vieni al Toro, abbiamo dato via Lentini e prendiamo te al suo posto”. “A be’, semo a posto”, gli risposi tra l’intimidito e il divertito. In realtà ero giovane e spensierato e vedevo solo il bello intorno a me, me la godevo, senza percepire quelle difficoltà e tensioni societarie che poi sarebbero emerse dopo il declino della gestione Borsano. Ricordo i campioni che avevo davanti in attacco: Silenzi, Aguilera, Casagrande. Giocatori come Scifo; l’anno dopo Francescoli e Carbone. Mi porterò dentro per sempre l’incredibile cura che ebbe nei miei riguardi Luca Fusi, quanto mi stava dietro, quanto mi trasmetteva e insegnava. Ricordo quando a fine stagione, con Calleri, ci vendettero tutti o quasi, una sorta di diaspora. Io avevo raccolto tante presenze ma poche dall’inizio, non ero quasi mai titolare, mi arrivò l’offerta dell’Udinese e la presi al volo, consapevole che fare un passo indietro e ripartire dalla B fosse per me la cosa migliore. Ho nel cuore il vecchio Filadelfia. La gente che veniva là e non so nemmeno se guardasse gli allenamenti: a quei tifosi bastava anche restare là seduti. Erano al Fila, e bon».

A Udine lei ha giocato e segnato più che ovunque, tornando a fine carriera per occuparsi del settore giovanile. Poi è diventato responsabile dei progetti internazionali nel Venezia. Di colpo, i proprietari americani l’hanno promossa a direttore dell’area tecnica. Pronti, via, promozione in A. «È stato tutto abbastanza rocambolesco. Ero già soddisfatto prima, un lavoro bellissimo. Poi, con la pandemia, non si è più potuto andare in giro; nel frattempo gli investitori sono diventati presidenti e hanno cambiato organigramma, struttura societaria, metodo. Si pensa e si agisce molto di gruppo, non più incarichi specifici e decisioni individuali. E hanno chiesto a me di giocare in quel ruolo. Avrebbe dovuto essere un anno per gettare le basi, invece è andato tutto subito alla grande ed è arrivata la promozione». Come si lavora con gli americani? «La chiave è aver voglia di imparare qualcosa di diverso, non necessariamente migliore o peggiore. Accettare cose e mentalità differenti dal nostro modo di pensare classico, specie nel calcio. Poi, come sempre e dappertutto, i risultati fanno la differenza. Per ora è bello». Lei di recente ha cercato di scuotere un po’ la piazza, invitando i veneziani a venire al Penzo, a riempirlo, onorando la Serie A. «Il fatto è che, al di là dei tifosi che non vogliono tornare allo stadio per via delle norme anti Covid, la gente qui ha percepito la nostra impresa in modo, come dire, quasi virtuale. A Venezia c’è questo tipo di mentalità, ora enfatizzata dalla crisi di tanti settori imprenditoriali, a partire dal turismo, per cui prima bisogna... lavorare. È una questione direi culturale. Tutti strafelici, sì, però prima di andare alla partita viene qualcos’altro. Tipo risolvere i problemi. Bisogna pensare anche prima di spendere 5 euro». Venezia di granata non ha solo Poggi. C’è il bravo allenatore, Zanetti. C’è l’ex giovane Aramu protagonista in campo. C’è un filo che lega i club fin dai tempi del Grande Torino. «Paolo ha un grandissimo ricordo del Toro. Era un giocatore di alto livello, un centrocampista davvero forte, ora un ottimo tecnico. Mattia ha fatto il suo percorso, la sua gavetta, ora si è meritato questa grande chance. E poi sì, c’è la memoria di quello squadrone leggendario, di Valentino Mazzola e Loik, dei Ballarin, l’affetto ancora vivo nella gente. Lo percepisco tutt’oggi. Il Grande Torino è nel cuore di Venezia, oltre che in una targa allo stadio».

Come lo vede questo Toro? «Sono andato a Reggio Emilia per la partita col Sassuolo. Che dire, mi ha fatto un’impressione ottima, ma ottima davvero. Una squadra dai... coglioni quadrati, ecco. Feroce. Sia con la palla sia senza. Non ti lascia respirare, non esce mai dal match. Juric le ha dato sicuramente un giro importante, sul piano della mentalità, dell’aggressività, del coraggio, dell’approccio. Credo sia quello che i tifosi granata aspettavano da tanto tempo: un Toro in cui riconoscersi» Da dirigente, che impressione le ha fatto lo sfogo del croato prima che finisse il mercato perché non gli erano ancora arrivati i rinforzi necessari? «Credo che al Torino sapessero com’è fatto Juric già prima di assumerlo: lo avranno ben preso consapevoli del suo carattere. La forza di una società poi è mettere equilibrio tra le varie personalità: lì si vedrà la vera forza dell’insieme». Cosa avete da opporre voi? «Il nostro modo di interpretare il calcio. Non siamo capaci di adattarci agli altri. Abbiamo delle peculiarità e quelle sono. Abbiamo riguardato con calma la partita col Milan: subito ci era rimasta la sensazione di non essere stati abbastanza determinati, poi a mente fredda il giudizio è un po’ cambiato. Quella prestazione è un buon punto di partenza». Da fuori, si è fatto un’idea del perché la fi gura di Cairo sia - al di là dei risultati cattivi o buoni - così invisa alla tifoseria granata? «No. So che è così, perché sento, leggo e vedo. Ma i motivi non riesco a spiegarli: li sa e li vive la gente del Toro. So però che questa squadra, con i risultati e l’atteggiamento, potrebbe favorire un ricongiungimento, o quantomeno allentare le tensioni, le negatività e i rancori passati». A proposito di passato: ha mai pensato che, facendo gol al Southampton nell’estate del ‘93 nel Trofeo Baretti ad Aosta, Poggi ha fatto vincere al Toro la sua ultima coppa? «Davvero? Grazie di avermelo ricordato. Un’altra cosa da portarmi nel cuore»

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