Ilkhan, dalla crisi ai gesti di Juric: "Torino, volevo smettere"

Fu il fratello maggiore a convincerlo a continuare: "Non puoi smettere con le qualità che hai". Studia l'italiano ma lo parla poco, così l'allenatore si fa capire a modo suo
Ilkhan, dalla crisi ai gesti di Juric: "Torino, volevo smettere"© /Ag. Aldo Liverani Sas

TORINO - Ancor oggi capita spesso che debba parlare a gesti. Juric gli urla un ordine in italiano, con la sua tipica cadenza croata, e Ilkhan lo osserva dubitabondo, con quegli occhietti perplessi da bambinone. Roba che, volendo, avrebbe potuto ispirare pure quel genio di Schulz, il creatore di Linus. «Ah già», sbotta poi in questi casi Ivan. Lo raggiunge in mezzo al campo, lo abbranca per le spalle, lo spintona in avanti o lo trascina all’indietro. Un altro ordine, ma stavolta accompagnato da una serie di gesti. Come a dirgli: fai così, scatta di là, copri di qui, accorcia, inserisciti, mordi, mordi, mordi, accidentaccio (ecco, non è che Juric dica esattamente accidentaccio. Per carità, ma su una pagina di giornale va bene così).



E comunque non c’è nulla da ridere. Ilkhan è sbarcato a Torino con in tasca 10 parole d’inglese, forse 15. Per tutto il resto, c’è il turco. Peccato, però, che nel Torino non ci siano suoi connazionali. Morale: si è trovato solo con se stesso, con i suoi silenzi e il suono di lingue misteriose. Un marziano al Filadelfia? Non esageriamo. Da settimane sta frequentando un corso di italiano e i progressi si cominciano a vedere, anche se siamo ancora a livelli basici. E dire che era uno studente modello. E a 14 anni stava per dire addio al calcio. Aveva deciso di smettere. Era nel Besiktas e aveva già fatto brillare il talento. Doti da predestinato, anche una maturità anticipata. Personalità, attributi, fame, testa alta, piedi buoni, persino carisma in campo. A 12, 13 anni, sì: facendo le debite proporzioni. Per cui, quando arrivò a 14, dovette affrontare un ulteriore salto di qualità. Allenamenti tutti i giorni, non più un giorno sì e uno no. Un impegno ben più gravoso, costante, massiccio. E lui era già la stellina della squadra. Peccato che Emirhan vivesse dall’altra parte di Istanbul, rispetto al campo di allenamento. E i genitori non erano più in grado di accompagnarlo tutti i giorni che Dio mandava in terra. Così lui iniziò a dire: «Smetto. Io non posso andare e venire coi mezzi pubblici tutti i giorni, tornando di sera. Troppo lungo, troppe ore, non riuscirei più a studiare». Parlò anche con il suo allenatore, e con il responsabile del vivaio del Besiktas: «Non sapete quanto mi dispiaccia, sono più di 5 anni che indosso questa maglia, ma mi è impossibile continuare, abito troppo lontano... E poi sarebbe anche pericoloso per un ragazzino come me andare in giro la sera per Istanbul... da solo...». Occhi rivolti verso il basso, mestizia. «Comunque a me piace studiare: voglio andare all’Università, un giorno. Per cui troverò un’altra strada nella vita». Il fratello maggiore. Ecco chi lo aiutò. Ecco chi cominciò ad accompagnarlo tutti i giorni, e per ben più di un anno: «Perché tu, fratellino mio, non puoi smettere, col talento che hai. Hai già compiuto mille sacrifici, e con te i nostri genitori. Non possiamo buttare tutto a mare. Ti aiuto io. Rinuncio a qualcosa io. Lo meriti, fratello. E guai a te se smetti».



Ecco chi gli ha permesso di diventare l’Ilkhan di oggi: uno dei migliori giovani talenti del Torino, strappato in estate al Besiktas per 4,5 milioni di euro attraverso la clausola di rescissione fatta inserire dai suoi nuovi procuratori poco prima, a giugno, una volta divenuto maggiorenne, con annesso il primo nuovo contratto professionistico della vita, con tutti i crismi. E per i tifosi del Besiktas era un motivo di vanto e speranza: un regista in prima squadra già a 17 anni, cresciuto nel vivaio. Il loro ragazzo, come un figlio. Perché nel corso del 2021-2022, disputato da campione di Turchia, il Besiktas esonerò il suo tecnico, Sergen Yalcin, sino a pochi mesi prima considerato un eroe. E al suo posto, a mo’ di interregno, prima dell’ingaggio dell’allenatore francese Valerien Ismael, fu promosso Onder Karaveli, il tecnico di quella che noi chiameremmo la Primavera. Il quale non ebbe dubbi fin dall’inizio. E Ilkhan, già comunque un osservato speciale in ottica prima squadra, venne immediatamente lanciato coi grandi dal suo allenatore che conosceva di lui tutte le virtù. Così, neanche maggiorenne, si trovò a giocare una partita dopo l’altra nella seconda parte della stagione: 11 presenze di cui 7 da titolare, un gol segnato, un gettone anche nella finale di Supercoppa turca, vinta. Andando a scuola da un titolare (un nume tutelare, più che altro) come Pjanic. Per lui che, però, ha sempre avuto lo spagnolo ultradecorato Fabregas, come modello. E Juric, adesso, come vigile urbano. Scherziamo, alludiamo al costante gran gesticolare, aiutato dal vice Paro.



Col Lecce brillò, Emirhan. Poi, a San Siro, quella dormita sul gol di Brozovic all’89’. Pianse, nello spogliatoio. E il giorno dopo, utilizzando Google Translate, postò un messaggio di scuse in italiano così lungo e intenso come se lo avessero scoperto rubare negli spogliatoi o calpestare la maglia del Toro. Invece no: solo un errore di posizione e di sveglia, ritardata. Ma anche questo può dare l’idea del ragazzo che è. Emirhan: sempre più avanti nel tempo e in anticipo nello spazio. E da lustri, ormai. Tranne quella volta a Milano. Ma voleva smettere, 4 anni fa.

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