Grande Torino, quel pomeriggio in cui morì la Patria

Ancora oggi tante domande restano appese attorno alla sciagura, ma un mito diventa assoluto anche quando si nutre di mistero. Gli eroi granata simbolo di un’Italia che crollò tutta insieme al suolo. L’allerta della torre di controllo e la risposta del capo marconista

L’ultima volta in cui l’I-Elce staccò l’ombra da terra erano le 14.50 del 4 maggio 1949. Sulla pista di Barcellona, dove il Torino era atterrato alle 13.15 per lo scalo tecnico nel viaggio da Lisbona all’Italia, il capitano Pierluigi Meroni sollevò la cloche. Non avrebbe più avuto modo né tempo di ripetere quell’operazione. Il Grande Torino, sconfitto il giorno prima 4-3 in un’enorme festa di pubblico, passò sopra Savona dopo circa due ore trascorse in quota e dopo avere sorvolato gli abitati di Tolone, Nizza e Albenga. È strano, eppure dell’ultimo volo sappiamo tutto e quasi niente. Sappiamo perfettamente i nomi dei 31 passeggeri che poteva contenere l’aereo, a partire dai calciatori della gloria granata, ma non conosceremo mai cosa si dissero tra di loro prima dell’incidente. Sappiamo che c’era il terzo portiere Dino Ballarin per volontà del fratello Aldo, non sappiamo invece quanto incisero le polemiche per la panchina azzurra, tra il presidente Ferruccio Novo e Vittorio Pozzo, a spingere l’ex ct a rinunciare alla spedizione. Macabra ironia, toccherà a lui riconoscere le vittime attraverso piccoli oggetti come le sigarette o la spilla al bavero della giacca di Menti, sollevando nobilmente mogli e figli da uno straziante esercizio.

Il Grande Torino e i misteri legati al 4 maggio 1949

Ancora oggi, infine, manca la certezza sul motivo ultimo per cui si continuò in direzione Torino nonostante le pessime condizioni meteo, con pioggia fitta e nuvole basse. "Visibilità zero, se continuate dovete volare alla cieca", avvisarono suppergiù dalla torre di controllo. Il capo marconista, Antonio Pangrazzi, non tentennò: "Quota 2000, tagliamo su Superga", fu la sua risposta. In realtà i metri erano appena 600 e di fronte al trimotore si stagliava il terrapieno della basilica di Superga. Dentro all’edificio, al primo piano, don Tancredi Ricca era assorbito dalla lettura. Fu il primo, alle 17.03, a udire il boato che trasformò la migliore squadra di sempre nella più grande leggenda di sempre. Come scrisse Indro Montanelli, "il Torino non è morto, è soltanto in trasferta". Ancora oggi, ad ormai 80 anni da quel giorno di lutto nazionale, tante domande restano appese attorno alla sciagura di Superga. Un mito assoluto si nutre anche di mistero. Ad esempio perché non si optò per Malpensa? Forse fu tutto troppo rapido, veloce e tremendo. Il G212 era un aereo trimotore, ad ala bassa, disegnato dalla matita di Giuseppe Gabrielli, padre di molti velivoli dell’epoca. Siciliano di nascita, Gabrielli si era formato al Politecnico di Torino, dove era poi arrivato a insegnare Costruzioni Aeronautiche. A lui dobbiamo il primo caccia italiano, e a lui si rivolse Giovanni Agnelli per ampliare un’area di progettazione di aerei all’interno della Fiat. Sempre di proprietà Fiat, con sigla Ali (Avio linee italiane), era la compagnia sulla quale salì la squadra per il volo a Lisbona, nonché l’Aeroporto Aeritalia verso cui era destinato l’aereo, più tardi sostituito dall’aeroporto di Caselle.

Il 1949 e quella serie di tragedie aeree

Il 1949 segnava la svolta comunista della Cina e lo scandalo per la presentazione al teatro Eliseo di Roma di “Un tram chiamato desiderio”, portato in scena dal contestato Luchino Visconti, ma era anche l’anno in cui si registrarono diverse tragedie aeree. Oltre al Grande Torino, nei mari atlantici finì l’aereo di Marcel Cerdan, ex campione del mondo dei pesi medi, mentre il conte Giorgio Cini, compagno della bella attrice Merle Oberon, precipitò in Costa Azzurra. La sfida dei cieli era in pieno svolgimento, tenuto conto che molto dello sviluppo dell’ingegneria si era avuto appena pochi anni prima per ragioni prevalentemente belliche. In quel 1949 venne celebrata la trasvolata oceanica dell’”Angelo dei Bimbi”, minuscolo aereo lanciato tra continenti per ricavare soldi in favore dei “mutilatini” di don Gnocchi. L’idea del volo stava cioè prendendo ovunque piede in una società italiana ancora lontana dal boom economico, ma che già rincorreva il sogno di accorciare le distanze.

Il Grande Torino e la decisione di volare a Lisbona per sfidare il Benfica

Rapido divenne dunque anche il pensiero di un viaggio lampo del Toro in Portogallo, dopo l’esperienza precedente della tournée sudamericana. Fu così che durante l’amichevole di Genova del 27 febbraio ‘49 tra le due Nazionali, Francisco Ferreira ottenne la disponibilità di Valentino Mazzola a una sfida il cui ricavato, come altre gare, sarebbe andato al capitano lusitano per costruire la pensione. La decisione fu confermata un mese dopo a Madrid, quando gli azzurri affrontarono la Spagna. Quella volta, con il capitano granata, c’era il presidente Ferruccio Novo. I voli stavano per aprire al calcio europeo e internazionale, rappresentato nei decenni precedenti dai transatlantici, ma ora lanciato dai motori in cielo. L’aria stava sostituendo il mare, con tutte le insidie del caso. Con i due milioni di disoccupati, le strade ancora in rifacimento, una scelta atlantica che solo in quel 1949 l’Italia assumeva, il Paese guardava al futuro con i suoi eroi granata e con le ambizioni di volare in alto. In qualche modo, dietro la tragedia di Superga si nascondeva la metafora di una nazione che provava a risollevarsi e che quel giorno crollò tutta insieme al suolo. Morì la Patria, non solo una formazione di calcio, valga per chi ha vilipeso la memoria. A Palazzo Madama fu allestita la camera ardente, centinaia di migliaia di persone, con alla testa un giovane Giulio Andreotti, a rappresentare il governo, piansero ai funerali. Altri milioni lo fecero ascoltando in religioso silenzio alla radio. La leggenda del Grande Torino continuava così a volare nell’etere e nella storia.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
Loading...