Rodriguez esclusivo: "Toro mio, c’è voglia d’Europa”

Il capitano granata: "Siamo un gruppo in crescita: possiamo fare molto bene. Chi è al Torino sa che deve dare il massimo. E io cerco di essere sempre un esempio per i più giovani, in campo e fuori"
Rodriguez esclusivo: "Toro mio, c’è voglia d’Europa”© LAPRESSE

TORINO - Il vero leader non urla quasi mai, perché non ha bisogno di alzare la voce per farsi ascoltare e rispettare. Soppesa le parole, si affida soprattutto ai fatti e poi capisce se è seguito oppure no. Di solito, quasi sempre, lo è. Ricardo Rodriguez è il paradigma perfetto di queste considerazioni: non è il capitano del Torino per caso.

Rodriguez, lunedì c’è il debutto in campionato contro il Cagliari. Con quali ambizioni si presenta il Toro?
«È il terzo anno con Juric. Nel primo abbiamo concluso con 50 punti. Nella passata stagione siamo arrivati a 53 e forse ne avremmo meritato qualcuno in più: è positivo perché significa che siamo cresciuti grazie al lavoro di ogni giorno. Ora l’obiettivo è uno solo: migliorarci ancora».

Migliorarsi significherebbe con buona probabilità riportare il Toro dove merita, in Europa.
«Sì, esatto. È così. Chi fa parte del nostro gruppo sa che deve dare il massimo sempre, in ogni situazione. E secondo me possiamo fare molto bene».

A livello personale, dove puoi ancora crescere?
«Vengo da due annate positive, per le quali posso ritenermi contento. Mi è mancato il gol, anche se nella prima stagione ci sono andato vicinissimo colpendo due volte la traversa. La fortuna non era con me: speriamo che qualcosa cambi, anche perché in passato ho sempre segnato, soprattutto al Wolfsburg. L’importante è stare bene fisicamente».

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Juric ti ha citato come l’esempio del suo giocatore ideale anche per l’impegno che dimostri quotidianamente, facendo parecchio lavoro supplementare dopo l’allenamento.
«Il lavoro è tutto. Ho firmato il primo contratto a 17 anni, ora ne ho 30: se guardiamo i numeri ci accorgiamo che raramente ho saltato delle partite. Ho giocato tre Mondiali e due Europei. Sono attento al mio corpo: nulla è casuale».

Anche per questa ragione sei un punto di riferimento per i tanti giovani del Toro...
«So che i ragazzi mi seguono, mi osservano. Èd è giusto che si rendano conto di quanto sia fondamentale allenarsi con impegno e serietà. Le parole sono importanti, però lo sono anche i fatti. Quando vado in campo, ho una responsabilità per me ma pure per chi ho attorno. I compagni devono sapere che c’è Rodri che sta qua e dà il massimo. Non voglio sbagliare».

Non a caso un anno fa Juric ti ha consegnato la fascia di capitano dopo l’ammutinamento di Lukic...
«È stata una scelta che mi ha fatto piacere, perché non ero mai stato capitano nella mia carriera. Non era un pensiero fisso, sia chiaro, però non posso negare che si tratti di una responsabilità che mi inorgoglisce. Anche perché so che il primo capitano nella storia del Toro era un difensore svizzero, Bollinger».

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La “tartaruga” è un’idea tua.
«Mi era successo di farla con la nazionale e con il Wolsfburg. Così ho pensato di proporla la prima volta in cui ho indossato la fascia, a Monza. Ci abbracciamo e ci carichiamo prima del fischio d’inizio. Sono concetti che cambiano a seconda del momento, dell’ispirazione. Di solito parlo io, però tutti sanno che possono intervenire. Spesso l’ha fatto Buongiorno, ma in qualche occasione sono stati Linetty o Vanja a cercare di dare una spinta in più al gruppo».

A proposito di Buongiorno, gli hai concesso il privilegio di leggere l’elenco dei Caduti il 4 maggio a Superga.
«Buongio è qui da una vita, lo meritava. Sapevo che ci teneva tantissimo e ne ho avuto la conferma mentre leggeva i nomi con grande emozione: non a caso, quando gliel’ho proposto ha accettato subito. Buongio lavora forte, è cresciuto tanto, più di tutti tra i giovani».

Ti mancano dieci presenze per raggiungere Hermann in cima alla classifica dei nazionali svizzeri con più presenze: un altro bel traguardo...
«Sì, sono a 108. Prima di me probabilmente ci riusciranno Xhaka e Shaqiri, ma non c’è dubbio che sia motivo di soddisfazione, anche perché quando ho cominciato non pensavo a questi record. Dopo un po’, mi sono posto l’obiettivo di arrivare a quota 100. E ora... beh, sono contento».

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Da un po’ di tempo la vostra nazionale rappresenta un esempio vincente di integrazione.
«Sì, tutti siamo nati in Svizzera, però in molti casi abbiamo origini lontane. È un elemento che ha reso forte la nostra nazionale, che non si è qualificata per caso alle ultime cinque fasi finali del Mondiale. Alla fine il discorso è sempre lo stesso: la chiave è il gruppo».

A Zurigo hai creato una Academy...
«È stata un’idea di mio fratello Roberto (lunga carriera nello Zurigo, dove ora gioca nella seconda squadra: è stato a Novara nel 2015-16, n.d.r.), che abbiamo subito approvato con entusiasmo io e l’altro mio fratello Francisco (ora al Winterthur, n.d.r.). Appena posso mi piace andare là e passare del tempo con i ragazzi. Non vogliamo creare campioni, ma dare a tutti la possibilità di giocare con allenatori che li seguono e allo stesso tempo aiutare le famiglie a far crescere i loro figli in un ambiente sano. Accogliamo volentieri anche bambini con difficoltà. È bello dare agli altri qualcosa di quello che si è ricevuto».

Per certi versi, forse non sei abbastanza considerato qui in Italia...
«Sì, non si parla tanto di me. Non conosco il motivo, nel senso che mi sembra che non venga tenuto abbastanza in considerazione quello che ho fatto. Eppure, basta leggere la mia carriera, no? Non sono molto mediatico e probabilmente è una cosa che pago. Ma a me interessa lavorare duro quando lavoro e poi starmene tranquillo con mia moglie Nicole e mio figlio Santiago. Non mi va di passare troppo tempo con il cellulare in mano».

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Se ti dico Joey Meister?
(ride) «È un ragazzino che avevo conosciuto al Wolfsburg. Aveva 12 anni. Veniva agli allenamenti, era un mio fan. Una sera era buio e l’ho visto da solo per la strada. Gli ho chiesto: Dove vai? E lui: A prendere il treno. Così l’ho accompagnato e nei mesi seguenti capitava spesso che gli dessi un passaggio. Agli amici raccontava che il suo miglior amico era un “calciatore tassista”...».

Non hai avuto una infanzia facile...
«Sono nato con l’ernia diaframmatica. Sono stato subito operato, ma i medici erano stati chiari. C’è il cinquanta per cento di possiblità che passi la notte, avevano detto ai miei genitori. Nei primi tre anni i problemi sono stati tanti. Poi, quando ne avevo 13, ho avuto due blocchi intestinali: mi hanno operato due volte in dieci giorni. Ne ho voluto parlare nel libro che ho scritto con i miei fratelli perché ho pensato che potesse dare forza a chi ha delle difficoltà e magari crede che non potrà mai avere la possibilità di diventare uno sportivo professionista ad alti livelli».

Qual era il tuo rapporto con la scuola?
(ride di gusto) «La scuola? Male, male... Non mi piaceva studiare e faticavo anche un po’ a concentrarmi in mezzo a tanti bambini per via di quello che mi era successo. Infatti i miei genitori mi hanno iscritto a una scuola privata nella speranza che con meno compagni di classe le cose migliorassero. Povera mamma... quante volte l’ho fatta piangere per i miei comportamenti. Ero un casinista tremendo, inutile girarci attorno. I presidi - al plurale perché ho cambiato sei o sette scuole - la chiamavano continuamente. A un certo punto ero autorizzato ad allenarmi la mattina e poi dovevo andare a scuola, però non avevo voglia. Chiamavo la mamma e le dicevo di avvisare che non stavo bene... Un paio di volte l’ho fatto io stesso, ma lì si è arrabbiata tanto. È successo anche che abbia fatto a pugni con due ragazzi che mi prendevano in giro. Stavamo andando in piscina: ho aspettato che la professoressa andasse nello spogliatoio delle donne e ho sistemato le cose. Dopo però siamo diventati amici... D’altronde, dentro ho un po’ di sangue latino...».

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Diciamo che a vederti nessuno lo sospetterebbe...
«Con il tempo sono maturato: ho anche finito le scuole superiori, eh... E poi c’è un fatto: io ho sempre voluto fare il calciatore e sapevo di avere talento. Tutto il resto non mi interessava, nemmeno le feste, per dire. Nella mia testa c’era posto solo per il pallone e questo mi è servito a seguire una strada precisa».

In campo raramente ti lasci andare a proteste esagerate.
«Merito della mia famiglia, e mi riferisco ai genitori e anche ai nonni materni. Sono stati loro a insegnarmi con i loro comportamenti il rispetto per gli altri».

Una figura fondamentale nella tua carriera è stata Felix Magath, che i tifosi del Toro ricordano volentieri perché con l’Amburgo segnò il gol decisivo alla Juve nella finale della Coppa dei Campioni 1983.
«Sì, è stato lui a volermi al Wolfsburg. Un tecnico con un enorme culto per il lavoro. Quando eravamo in ritiro ci allenavamo tre volte al giorno: alle 7, poi facevamo la colazione, di nuovo in campo verso le 10.30-11, quindi pranzo e riposo e nel tardo pomeriggio altra seduta. Era molto metodico, severo. Certo, i tempi sono cambiati e adesso bisogna anche che gli allenatori abbiano molto equilibrio nell’atteggiamento verso i giovani».

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Quanto a cura maniacale nel lavoro neanche Juric scherza...
«È uno che non molla mai. Se ha un’idea puoi stare sicuro che la porta a termine. È un allenatore bravo, che sa migliorare i giocatori giorno dopo giorno. A qualcuno può piacere, ad altri no».

Ti vedi allenatore, quando smetterai?
«È difficile avere a che fare con trenta giocatori. No, in questo momento non mi vedo allenatore. Magari poi cambio idea, ma in questo momento no».

Ma vorresti restare nel mondo del calcio?
«Mi vedo con i bambini, questo sì. Ecco, potrebbe essere bello allenare nelle giovanili».

A proposito di bambini, a chi assomiglia Santiago?
«Di viso è uguale a me. Speriamo che non abbia il mio carattere, sennò povera mamma... E povero papà...».

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TORINO - Il vero leader non urla quasi mai, perché non ha bisogno di alzare la voce per farsi ascoltare e rispettare. Soppesa le parole, si affida soprattutto ai fatti e poi capisce se è seguito oppure no. Di solito, quasi sempre, lo è. Ricardo Rodriguez è il paradigma perfetto di queste considerazioni: non è il capitano del Torino per caso.

Rodriguez, lunedì c’è il debutto in campionato contro il Cagliari. Con quali ambizioni si presenta il Toro?
«È il terzo anno con Juric. Nel primo abbiamo concluso con 50 punti. Nella passata stagione siamo arrivati a 53 e forse ne avremmo meritato qualcuno in più: è positivo perché significa che siamo cresciuti grazie al lavoro di ogni giorno. Ora l’obiettivo è uno solo: migliorarci ancora».

Migliorarsi significherebbe con buona probabilità riportare il Toro dove merita, in Europa.
«Sì, esatto. È così. Chi fa parte del nostro gruppo sa che deve dare il massimo sempre, in ogni situazione. E secondo me possiamo fare molto bene».

A livello personale, dove puoi ancora crescere?
«Vengo da due annate positive, per le quali posso ritenermi contento. Mi è mancato il gol, anche se nella prima stagione ci sono andato vicinissimo colpendo due volte la traversa. La fortuna non era con me: speriamo che qualcosa cambi, anche perché in passato ho sempre segnato, soprattutto al Wolfsburg. L’importante è stare bene fisicamente».

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