Evelina Christillin: "Se la Juve giocava male si arrabbiava di più di quando perdeva"

"Non vide i rigori della finale di Roma nel '96: troppo teso, ma fu la sua gioia più grande insieme alle Olimpiadi per Torino"

Ecco un estratto dell'intervista pubblicata oggi sullo speciale di Tuttosport dedicato a Gianni Agnelli:

“Ho avuto due fortune: ero una brava sciatrice e mio padre era un amico fraterno dell’Avvocato, che oltretutto era un nostro vicino di casa».

Inizia tutto da qua, insomma.
«Sì, sostanzialmente sì e la storia è, fortunatamente, lunghissima. Ma le prime scene vedono mio padre e l’Avvocato che vanno a sciare in elicottero. Capitava spesso: si conoscevamo molto bene e io spesso giocavo con i figli Margherita ed Edoardo, anche se li ho persi di vista abbastanza presto perché loro sono andati in giro per collegi e università, mentre io intanto a 14 anni ero entrata nella squadra nazionale di sci. Così un giorno, l’Avvocato disse a mio padre: perché non porti la ragazzina?».

La portò?
«Sì. E quel giorno la “ragazzina”, che per la cronaca era timidissima, ebbe il coraggio di dire che era una grande tifosa della Juventus».

E l’Avvocato?
«Beh, tornando da Sestriere, dove eravamo andati a sciare, mi portò a Villar Perosa, che è sulla strada per Torino. All’epoca il ritiro della squadra era ancora lì e così mi regalò questa immagine mistica dei giocatori che arrivavano nella sua villa dal grande viale in mezzo allo stupendo giardino per andare a salutarlo. E’ qualcosa che ho sempre viva davanti agli occhi: i campioni che camminano e io, un po’ defilata, con gli occhi sgranati e la bocca aperta. In pratica vedevo le mie figure prendere corpo e parlare. E il giorno dopo l’Avvocato mi portò con lui alla partita».

Sci e pallone erano effettivamente due buoni punti di partenza.
«Alla fine quasi solo calcio, tra l’altro. Perché in quel periodo ero molto assorbita dalla nazionale B di sci e così le occasioni per andare a sciare erano sempre meno. Invece, spesso andavamo alla partita perché l’Avvocato ha avuto la generosità di portarmi dappertutto, in tantissime trasferte. Anche alle finali perse di Champions. Compresa l’Heysel, purtroppo».

Come andò?
«Eravamo atterrati all’ultimo con il suo aereo privato, così ci trovammo allo stadio poco prima dell’inizio della partita o, per lo meno, di quello che doveva essere l’inizio della partita che era stato ovviamente rinviato. Ma non capivamo bene il perché la finale non iniziasse: c’era confusione e notizie frammentarie. Sì, avevamo visto una parte degli incidenti, ma lo stadio aveva una struttura vecchia e le tribune erano abbastanza lontane dalla maledetta Curva Z, così che non ci eravamo resi conto della reale tragicità dei fatti. In mezzo a molta confusione l’Avvocato si interrogava sul perché non iniziasse la gara e cercava informazioni. A un certo punto un funzionario del Ministero degli Interni italiano venne a dirgli: “E’ meglio se tornate a Torino”. Ci disse proprio così, senza fornire ulteriori dettagli. L’Avvocato, a quel punto, capì che la situazione era grave, cercò i dirigenti bianconeri e si raccomandò con loro: “Non giocate! Se la situazione è grave, mi raccomando, non giocate”. Poi andammo all’aeroporto per tornare a Torino».

Convinti che la partita non si fosse disputata?
«Sì. Quando atterrò l’aereo, l’Avvocato si stupì di non trovare nessuno sotto la scaletta. Premessa: di solito, all’arrivo del suo aereo c’era sempre una sorta di comitato d’accoglienza e una macchina pronta. Invece, quella sera, uno stranissimo deserto. Dopo qualche minuto arriva, tutto trafelato, un addetto che gli dice: “Mi scusi Avvocato, sono tutti nell’hangar a vedere la fine della partita”. Al che lui si stranì».

Si arrabbiò?
«Sul momento probabilmente sì, poi gli venne spiegato che era stata la situazione di ordine pubblico a richiedere la disputa della gara e capì, ma non tornò mai sull’argomento. Era una ferita che probabilmente gli faceva male e non considerò mai quella Coppa dei Campioni come un trofeo. Si godette molto di più la finale di Roma nel 1996».

Scherzi a Boniperti?
«Certo! Boniperti lasciava il Comunale all’intervallo e andava a casa, che era in strada San Vito, poco più giù di quella dell’Avvocato. Una volta arrivato nel suo studio si metteva a fare dei solitari con le carte, isolato da tutto per non sapere l’andamento della gara. Quando stava per finire la partita, spesso l’Avvocato mi diceva: “Andiamo da Boniperti a dirgli il risultato”. Così piombava a casa sua prima che lui avesse acceso la radio o la tv e gli diceva un risultato sbagliato, facendolo stare male. Era particolarmente perfido nei derby, quelli che Boniperti soffriva di più. Se la Juventus aveva vinto, simulava una faccia contrita e diceva: “Brutta sconfitta, bruttissima”. Boniperti si disperava: “Ma no Avvocato! Non mi dica così!”. Poi capiva lo scherzo, ma ci metteva un po’ a regolarizzare i battiti».

Come prendeva le sconfitte della Juventus l’Avvocato?
«Un po’ soffriva, anche se cercava di non darlo a vedere. Era uno sportivo autentico e quindi viveva tutto con quello spirito. Devo comunque dire che, più delle sconfitte, si infuriava quando la Juventus giocava male. Perdere era ammesso, anche se non concesso, ma giocare male o non impegnarsi abbastanza non lo era mai. Fu, per esempio, delusissimo dalla sconfitta di Atene nella finale di Coppa dei Campioni del 1983, quella Juventus era una delle più forti di sempre».

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