"Senna-Ferrari, tutta la verità. Agnelli mi disse: Lei è l'erede. E Hamilton..."

Direttore Generale a Maranello, Presidente dopo la morte del Drake: "Mi chiamò l'Avvocato e mi rivelò cosa pensava l'Ingegnere di me"

“Il suono di un motore a 12 cilindri Ferrari è una sinfonia che nessun direttore d’orchestra è in grado di dirigere”
Herbert von Karajan

Musica e Ferrari, due mondi che, sfidando le apparenze, hanno un punto di contatto: plasmano bellezza e creano emozioni. Piero Fusaro, ingegnere classe 1938, ha coltivato la prima come hobby («ho avuto la fortuna di ascoltare dal vivo grandi interpreti come Furtwangler e Celibidache, per molti anni sono stato abbonato alla stagione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale di Torino e all’Unione Musicale») la seconda coniugando la passione con la professione. Una parte importante di una storia della Ferrari oggi - a causa degli anni trascorsi - un po’ sfocata, ma che merita di essere rivisitata, perché la Ferrari di ieri aiuta anche a comprendere e ad apprezzare quella di oggi.

Ingegner Fusaro, lei entra per la prima volta alla Ferrari nel 1975, che effetto le ha fatto?
«Intanto incominciamo col dire che io ero appassionato di corse e della Ferrari in particolare da sempre, quindi, quando verso la metà del 1975 mi telefonò l’ingegner Ferrari per convocarmi, per fortuna ero seduto, se no sarei cascato per terra. Andai in Ferrari di corsa, ovviamente, venni ricevuto dall’Ingegnere a pranzo, passammo un paio di ore fantastiche e la mia impressione fu che la stima, l’enorme considerazione che avevo nei confronti di quell’uomo era confermata in pieno, e poi le prime impressioni sono state confermate nel corso del tempo, siamo diventati molto amici, tutti i giorni mi telefonava per invitarmi a pranzo compreso il sabato e la domenica. La Ferrari era un’azienda piccola, aveva circa 1.500 dipendenti, e in quel momento aveva qualche problema perché aveva lanciato la 308 GT4 che era la prima vettura fatta senza il disegno di Pininfarina (firmata da Bertone, ndr.) ed è stata un’auto che ha avuto problemi nella vendita, all’inizio; in realtà era una vettura meravigliosa, guidabilissima. Ho vissuto praticamente al fianco di Enzo Ferrari per cinque anni, respirando la storia dell’automobilismo».

Come erano i rapporti con Mauro Forghieri?
«Fantastici, oltretutto eravamo vicini di casa e la domenica pomeriggio molto spesso ci incontravamo con le famiglie. I modenesi per me sono meravigliosi perché sono dei grandissimi lavoratori, ma sanno anche vivere molto bene, per cui ci si incontrava e si diceva “allora stasera ceniamo assieme?” e spesso alla sera della domenica si cenava con mogli e figli. Grande uomo Forghieri, lui era uno che non le mandava a dire, una persona estremamente sincera. Un fatto che non sempre è emerso dai giornali è che una delle grandi intuizioni dell’ingegner Ferrari fu di fare una squadra con tre componenti fondamentali: la prima doveva curare lo sviluppo della macchina di quel momento, ed era Rocchi che lo faceva, la seconda si occupava di montaggio e sviluppo motori e montaggio vetture, affidata all’ingegner Bussi e la terza lavorava sullo sviluppo della vettura del futuro, affidata a Forghieri. Dunque Ferrari aveva diviso la Gestione Sportiva in tre macro settori, poi Forghieri, però, oltre a interessarsi del futuro, si occupava di tutte le cose che voleva, era inevitabile, lui era fatto così».

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Convocato dall'Avvocato: Ferrari l'ha designato

Nel 1988, dopo la morte dell’Ingegnere, viene nominato presidente della Ferrari. Come è avvenuta la chiamata?
«Sono stato convocato dall’avvocato Agnelli, che mi disse “senta Fusaro, Ferrari mi ha sempre detto che lei avrebbe dovuto essere il suo successore” Ferrari purtroppo è morto e quindi la chiamo alla presidenza della Ferrari».

Un segno anche del rispetto reciproco che c’era tra Ferrari e Agnelli.
«Sì, c’era un rispetto estremo fra i due, del resto l’avvocato Agnelli era un estimatore incredibile di queste vetture, così belle e performanti e nel contempo Ferrari era un grande conoscitore di automobili, conosceva anche lo sviluppo delle vetture Fiat e a volte diceva anche la sua».

La sua presidenza è stata un po’ complicata, almeno dal punto di vista sportivo.
« È vero ed è giusto separare i due aspetti. La mia presidenza, dal punto di vista industriale, fu un successo enorme, perché quando io lasciai la Ferrari il patrimonio netto era quasi uguale al fatturato e la posizione finanziaria netta era la metà del fatturato, quindi era un’azienda piena di soldi e oltretutto aveva una redditività incredibile, enorme oserei dire, credo che nemmeno adesso abbiano delle percentuali di utili netti sul bilancio così alte, naturalmente rapportate ai numeri globali che sono molto diversi. Dal punto di vista sportivo, quando io tornai in Ferrari come presidente, la squadra corse era una squadra molto ben equilibrata, molto ben formata, con grandi tecnici e grandi piloti, e chiesi a Cesare Fiorio di venire, non tanto perché fosse necessario un direttore della Gestione Sportiva, ma perché pensavo, conoscendo Fiorio da anni, che avevo nominato direttore dell’Abarth, che potesse apportare alla Ferrari la sua conoscenza sui regolamenti, sulla loro gestione, sulla gestione degli uomini che seguivano a livello Fia l’evoluzione delle varie norme, sulla gestione dei piloti. Per il resto non c’era bisogno di nulla, tant’è che appena arrivato Fiorio in Ferrari, dopo pochi giorni vincemmo con Mansell il Gran Premio del Brasile».

Fu una vittoria sorprendente.
«Sì, non me l’aspettavo nemmeno io, anche perché erano i primi passi del famoso cambio automatico e quindi c’era una curva di apprendimento che era appena all’inizio, non eravamo nemmeno certi di riuscire a finire la gara. Mi permetta una battuta: Fiorio, con la sua sindrome del salvatore acquisì da subito i meriti della vittoria, è vero che c’era lui, ma il merito era anche degli altri che avevano fatto la macchina e l’avevano sviluppata, tant’è che poi in quell’anno abbiamo vinto altre gare, non molte ma ne abbiamo vinte altre, perché avevamo problemi di affidabilità con il cambio. Poi, finalmente, nel 1990 la macchina prese il volo e rischiammo di vincere il titolo mondiale sia piloti sia costruttori, se non ci fosse stato il famoso incidente con Senna a Suzuka. Quindi, dal punto di vista sportivo, non voglio prendermi meriti ma credo di aver lavorato nel solco di quelle che erano le premesse create da Ferrari, cioè una squadra a buon livello portandola a sfiorare il titolo mondiale, senza il merito mio, essendo tutto il merito della squadra, dei meccanici ai box, degli ingegneri e dei piloti».

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Senna-Ferrari, come è andata davvero

Non voglio farla tornare sulla vicenda Senna-Ferrari, perché a più riprese ha fatto chiarezza sul tema. Invece le domando: come fece Prost e farsi ricevere e confermare dall’avvocato Agnelli?
(Ride) «Per capire come è andata bisogna conoscere bene Prost e l’avvocato Agnelli. L’Avvocato non rifiutava gli incontri, era un uomo di mondo, un grande personaggio, un principe che concedeva udienza quando qualcuno chiedeva di farsi ricevere. Certo, se ci provava un “baluba” qualsiasi (termine piemontese che indica una persona rozza, insignificante, ndr.) doveva superare una serie di filtri che lo avrebbero fermato, se lo faceva Prost gli dicevano “Avvocato c’è Prost che la vuole vedere” e Agnelli avrebbe subito detto “dov’è, fuori?”. Forse in quel momento ne sapevate addirittura più voi giornalisti di me sulla trattativa con Senna, le stesse voci sono arrivate anche a Prost e per lui è stato facile andare da Agnelli e ottenere la conferma per l’anno dopo. Però ci tengo lo stesso a precisare ciò che successe dopo, perché la mia versione venne confermata a suo tempo anche da Cesare Romiti a Carlo Cavicchi, che mi aveva intervistato.

Prost disse ai quattro venti che il suo contratto era confermato, Agnelli non lo smentì e noi prendemmo atto della situazione, non vedo cosa avremmo potuto fare di diverso, perché Agnelli era il proprietario della Fiat e della Ferrari e poi non è che confermasse un “ciccetti” qualsiasi, Prost era un campione che aveva già vinto tre titoli mondiali e che stava per vincere il quarto proprio con la Ferrari. Senza contare che il famoso contratto che Fiorio ha poi sventolato successivamente, non si può nemmeno dire un pre-contratto o una lettera di intenti, perché mancava di alcuni principi fondamentali».

In che senso?
«Dal lato di Senna era tutto chiaro, si trattava di Ayrton Senna, con indirizzo e tutto ciò che era necessario, dal lato della Ferrari non è mai esistita la GS SA, se Senna avesse firmato quel contratto lo avrebbe firmato con nessuno, perché esisteva la GSA SA (Gestion Sportive Automobile per azioni) e non la GS».

C’è una foto che la ritrae mentre parla alla stampa a Jerez, nel 1990. La settimana prima Mansell aveva vinto all’Estoril, al via aveva spinto Prost contro il muretto e probabilmente fu quella vittoria di Mansell a far perdere il Mondiale a Prost. Pensa che quel titolo avrebbe cambiato la storia?
«Sì, assolutamente, e sono convinto anch’io che perdemmo il mondiale all’Estoril più che per l’incidente con Senna a Suzuka. Sono certo che la vittoria di quel campionato avrebbe cambiato la storia. Vincere un mondiale è qualcosa che cambia la vita di tutti, il titolo mancava dal 1979, sarebbe stato oltretutto un successo nell’onda di Ferrari, in continuità con Ferrari e per me sarebbe stato fondamentale e altrettanto per la Ferrari e per i ferraristi. Quello sarebbe stato l’ultimo campionato vinto dalla Ferrari di Enzo Ferrari».

Qual è il suo ricordo di Senna?
«Ho avuto pochissimi contatti con Senna, soltanto qualche stretta di mano, non posso dire di averlo conosciuto. Ciò che posso dire dall’esterno è che è stato uno dei più grandi piloti di tutti i tempi, ha segnato la storia dell’automobilismo, era un personaggio particolare, univa la sua straordinaria abilità di pilota con un misticismo incredibile, aveva una spiritualità molto accentuata, forse è anche questo il motivo - ora esagero - della sua trascendenza, era un uomo fuori dal normale. Un fantastico pilota ma anche un grande uomo, un uomo di pensiero».

Il divorzio di Fiorio dalla Ferrari nel 1991 lasciò tutti stupiti, per i tempi e modi in cui si verificò.
«In realtà non accadde nulla di particolare, nel 1991 me ne andai io perché non avevo vinto il Mondiale in tre anni e mi sembrava giusto dimettermi dalla Ferrari, anche perché poi c’erano state all’interno dell’azienda alcune divisioni che non mi erano piaciute e si può dire lo stesso pure per Fiorio. In quel momento la Ferrari era gestita di fatto da un comitato esecutivo, io avevo voce in capitolo forte ma ce l’aveva anche Romiti, anche Montezemolo, a quel punto si pensò che forse era bene ricominciare, perché i rapporti con Prost si andavano un po’ sfilacciando (sarebbe stato licenziato dopo il GP del Giappone, penultima gara dell’anno, ndr.), direi che è quasi stata la fine naturale di un rapporto consumato. E per quanto mi riguarda, mentre gli anni passati con Ferrari sono stati bellissimi, gli ultimi tre alla presidenza sono stati duri, evidentemente c’erano altri che non pensavano che dovessi essere io il successore di Ferrari. Se Prost vinceva, non venivano da me a congratularsi per la vittoria, ma mi chiedevano perché Mansell non era arrivato».

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Hamilton affare Ferrari. Troppe regole fanno male alla F1

Adesso alla Ferrari arriva Hamilton, a 40 anni. È troppo tardi?
«Per Hamilton non sarebbe tardi neanche a 80 anni, è un pilota che adoro, è veramente uno degli ultimi grandi piloti, poi non conosco la sua capacità di preparare una vettura. Se lo guardo da fuori, in modo molto freddo, devo dire che Hamilton fa un grande affare, ma probabilmente lo fa anche la Ferrari perché magari è bravo nel mettere a punto la macchina, e comunque è ancora un grandissimo pilota. È una persona estremamente seria, sarà un valore aggiunto per la squadra; verrebbe da dire che il grande affare lo fa lui, perché finire una carriera come la sua in Ferrari non è male, però sono sicuro che darà un grande contributo».

È la dimostrazione che il fascino della Ferrari è ancora molto forte, anche per un pilota che ha vinto tanto.
«Credo che il fascino della Ferrari sia rimasto e rimarrà immutato nel tempo. Non c’è grande pilota che non sogni di vincere con la Ferrari e anche se non vince ha comunque messo da parte una specie di certificato assicurativo per tutta la vita».

La Formula 1 di oggi le piace?
«Le dirò che nell’ultimo Gran Premio mi sono addormentato alla partenza e svegliato all’arrivo, la F1 di oggi mi annoia un po’, le regole di adesso la rendono troppo noiosa, questi messaggi continui “under investigation” che compaiono, ma dai… Ci sono episodi che da sempre hanno fatto parte delle corse. Io non dico che debba essere come ai miei tempi, quando il direttore commerciale, perché era quello che conosceva l’inglese, andava in giro per il mondo a recuperare cadaveri di piloti, ma erano appunto altri tempi, adesso hanno messo in sicurezza le piste, hanno reso estremamente sicuri gli abitacoli, ma si permetta a questi piloti di combattere un po’. Se uno mette le ruote di un centimetro fuori dalla riga viene penalizzato, questi track limit sono insopportabili, come la maggior parte degli under investigation».

Poiché ama la musica le dico: Bach, Mozart e Beethoven. Con quali piloti mi risponde?
«Eh, mi mette di fronte a tre giganti della musica. Bach è Fangio, Mozart è Senna e Beethoven (un paio di secondi di indecisione, ndr.) è Hamilton».

Da torinese come ha vissuto le Olimpiadi del 2006?
«Ne ho un grande ricordo, bellissimo, perché per Torino furono una straordinaria occasione, che cambiò il volto della città, mi spiace per l’esclusione per i Giochi del 2026, le Olimpiadi sono sempre una grandissima fortuna per una città, sono un’occasione di sviluppo. Il retaggio che l’avvocato Agnelli ha lasciato a Torino con i Giochi è stato un colpo di fortuna per la città, d’altronde il senso di un’Olimpiade è anche fare degli investimenti strutturali che incidano nel tessuto urbano e che durino nel tempo».

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“Il suono di un motore a 12 cilindri Ferrari è una sinfonia che nessun direttore d’orchestra è in grado di dirigere”
Herbert von Karajan

Musica e Ferrari, due mondi che, sfidando le apparenze, hanno un punto di contatto: plasmano bellezza e creano emozioni. Piero Fusaro, ingegnere classe 1938, ha coltivato la prima come hobby («ho avuto la fortuna di ascoltare dal vivo grandi interpreti come Furtwangler e Celibidache, per molti anni sono stato abbonato alla stagione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale di Torino e all’Unione Musicale») la seconda coniugando la passione con la professione. Una parte importante di una storia della Ferrari oggi - a causa degli anni trascorsi - un po’ sfocata, ma che merita di essere rivisitata, perché la Ferrari di ieri aiuta anche a comprendere e ad apprezzare quella di oggi.

Ingegner Fusaro, lei entra per la prima volta alla Ferrari nel 1975, che effetto le ha fatto?
«Intanto incominciamo col dire che io ero appassionato di corse e della Ferrari in particolare da sempre, quindi, quando verso la metà del 1975 mi telefonò l’ingegner Ferrari per convocarmi, per fortuna ero seduto, se no sarei cascato per terra. Andai in Ferrari di corsa, ovviamente, venni ricevuto dall’Ingegnere a pranzo, passammo un paio di ore fantastiche e la mia impressione fu che la stima, l’enorme considerazione che avevo nei confronti di quell’uomo era confermata in pieno, e poi le prime impressioni sono state confermate nel corso del tempo, siamo diventati molto amici, tutti i giorni mi telefonava per invitarmi a pranzo compreso il sabato e la domenica. La Ferrari era un’azienda piccola, aveva circa 1.500 dipendenti, e in quel momento aveva qualche problema perché aveva lanciato la 308 GT4 che era la prima vettura fatta senza il disegno di Pininfarina (firmata da Bertone, ndr.) ed è stata un’auto che ha avuto problemi nella vendita, all’inizio; in realtà era una vettura meravigliosa, guidabilissima. Ho vissuto praticamente al fianco di Enzo Ferrari per cinque anni, respirando la storia dell’automobilismo».

Come erano i rapporti con Mauro Forghieri?
«Fantastici, oltretutto eravamo vicini di casa e la domenica pomeriggio molto spesso ci incontravamo con le famiglie. I modenesi per me sono meravigliosi perché sono dei grandissimi lavoratori, ma sanno anche vivere molto bene, per cui ci si incontrava e si diceva “allora stasera ceniamo assieme?” e spesso alla sera della domenica si cenava con mogli e figli. Grande uomo Forghieri, lui era uno che non le mandava a dire, una persona estremamente sincera. Un fatto che non sempre è emerso dai giornali è che una delle grandi intuizioni dell’ingegner Ferrari fu di fare una squadra con tre componenti fondamentali: la prima doveva curare lo sviluppo della macchina di quel momento, ed era Rocchi che lo faceva, la seconda si occupava di montaggio e sviluppo motori e montaggio vetture, affidata all’ingegner Bussi e la terza lavorava sullo sviluppo della vettura del futuro, affidata a Forghieri. Dunque Ferrari aveva diviso la Gestione Sportiva in tre macro settori, poi Forghieri, però, oltre a interessarsi del futuro, si occupava di tutte le cose che voleva, era inevitabile, lui era fatto così».

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