Busi: "La mia Dakar senza velo"

L'intervista integrale all'unica italiana a partecipare alla corsa: "Voglio essere la Lauda dei rally"
Busi: "La mia Dakar senza velo"

TORINO - "Papà, da piccola giocavo con le bambole? Dice che non gli pare, d’altronde anch’io non ne ho ricordo". Rebecca Busi risponde così dall’Arabia a una domanda se vogliamo banale. Di sicuro ricorda una macchinina elettrica bianca. Di quelle che un tempo i bambini chiedevano a Babbo Natale. Papà Roberto, che ha un’azienda di arredi religiosi, la regalò alle figlie Rachele e Rebecca, ma la minore se l’accaparrò, targandola Reby01. La prima stimmate di un destino a quattro ruote e battagliero che l’ha portata due anni fa ad essere la più giovane partecipante alla Dakar e ora, alla terza edizione, la prima da professionista, l’unica donna italiana al via. Rebecca Busi, 27 anni, laurea e master in Economia, è pronta a salire sulla sua Maverick Cam Am X3 XRS RR, un buggy small size (900 cc) ma full power (200 cv) sulle dune e le pietraie dell’Arabia Saudita. Senza velo, ma l’arcobaleno simbolo della libertà sul casco, come Lewis Hamilton quando ha corso da queste parti in F1. E con sponsor OnlyFans, un social nato per gli adulti che re Salman ha bandito.

Rebecca, da dove nasce la passione per i motori?
"È una faccenda di famiglia. Papà correva in moto, ha fatto tre Pharaons. Zio Franco in auto, sempre nei rally. I weekend li passavo a vedere le loro gare. All’inizio a dire il vero era più odio che amore, perché mi portavano via dagli amici, ma mi divertivo a fare i refueling e a rubare l’acqua con i sali minerali dalla borraccia. Poi appena potuto ho voluto provare. Solo che papà mi faceva fare la navigatrice. E io volevo guidare".

Come l’ha vinta?
"Rompendo, come sempre".

E la Dakar come nasce?
"Durante la pandemia. Sono una che ama la libertà, la vita all’aria aperta, l’avventura. Gareggiavo già da tempo. Ho provato con i kart, ma volevano darmi una zavorra per il mio peso e queste cose non mi piacciono. Poi i rally. A casa mi sentivo oppressa e m’è venuta questa idea. Papà mi ha detto: “Guarda: uno costa tanto, due bisogna trovare una persona che sappia navigare e fare il meccanico”".

E come ha risolto i due problemi?
"Ho venduto la macchina e col ricavato ho chiuso il budget e un po’ ripagato l’aiuto dei miei, comprandone una a mia sorella. La “persona” l’ho trovata in Roberto Musi, un signore di Bologna che aveva già corso la Dakar Classic. Il mio punto di partenza, con una Range Rover del 1992".

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Com’è andata?
"Che l’ho finita e ho iniziato subito a organizzare la seconda, la prima “vera”. Ho trovato uno sponsor (OnlyFans appunto, ndr) e una navigatrice, Giulia Maroni, per fare un equipaggio tutto femminile. Non è andata come volevamo, perché mi sono ritirata a quattro tappe dalla fine per problemi alla macchina e perché mi sono ammalata, ma ho capito che era quello che volevo fare come lavoro. Sì, io che ho studiato tutta la vita per prendere in mano l’azienda di famiglia. Poi però è arrivata la Dakar…".

Che rapporto ha con questo mitico raid?
(sorride) "Odio e amore, come da piccola quando seguivo papà e zio… Odio il freddo di notte, al bivacco. Ma amo guidare sulle dune proprio di notte".

Alla terza edizione che ambizioni ha?
"Intanto finirla, anche se da buona professionista (lo è diventata la scorsa stagione, arrivando quarta nel Mondiale Rally Raid, ndr) dico che non bisogna avere ambizioni. L’anno corso pensavo di essere pronta ma non lo ero, così ho lavorato su tutti i dettagli".

Quali?
"Intanto ho capito che come navigatore avevo bisogno di un professionista della Dakar. Ho contattato Sergio Lafuente, uno che ne ha corse quindici. Abbiamo provato in Marocco e ci siamo trovati bene e in dicembre ci siamo allenati una settimana in Cile su terreni simili a quelli che troveremo qui in Arabia. Poi ho lavorato su me stessa. Ho un personal trainer che mi ha allenata sei volte la settimana in palestra focalizzando forza e cardio come se fosse al volante. E un mental coach, perché alla Dakar ho imparato che si vince prima con la testa".

Per guidare otto-dieci ore?
"Per affrontare tutto questo in due settimane. Devi gestire le emozioni di una gara che ti fa vivere inevitabilmente giorni belli e giorni brutti e giorni ancora più brutti. Ma devi restare sempre concentrata e portare a casa la macchina. È la prima cosa che mi hanno detto e ridetto come un mantra: proteggi la macchia, risparmia la macchina".

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E papà Roberto cosa dice?
"Lui è qui con me, guida il camper di assistenza, con i ricambi e tutto il resto. Si diverte".

C’è un pilota a cui s’ispira?
"Alla Dakar dico Nasser Al-Attiyah (il principe qatariota che l’ha vinta 5 volte, comprese le ultime due edizioni, ndr). L’ho conosciuto ed è davvero simpatico. Faccio il tifo per lui. In assoluto però il mio idolo è Niki Lauda".

Riferimento curioso per una giovane…
"Amo i motori e la loro storia, specie quella della Formula 1 che ho sempre seguito a parte quest’ultima stagione, visto come andava la Ferrari... Di Lauda mi è sempre piaciuto il suo modo di fare da ragazzaccio. Correva perché era l’unica cosa che sapeva fare davvero bene. Anche io ne mio piccolo. Correre è la mia passione".

Com’è farlo da donna?
"Devi essere pronta a gestire i pregiudizi e soprattutto ad accettare tanti ma tanti no. Io non corro per diventare una star, ma se la mia storia fosse conosciuta, magari qualche ragazzina che vuole iniziare a farlo e pensa di non potercela fare si sentirebbe meno sola. Ecco, a me basterebbe dare una speranza anche a una sola ragazza".

Famosa però potrebbe diventarlo grazie al cinema, visto che ha interpretato Fabrizia Pons, la navigatrice di Michelle Mutton, in un film con Riccardo Scamarcio…
(sorride) "Vediamo quando esce Win2. A breve negli Usa, a marzo in Italia. La produzione mi ha cercata con un messaggio sui social, ma pensavo fosse uno scherzo e non ho risposto. Poi è arrivata una mail e l’ho fatto. Ero a Barcellona per il Master, abbiamo girato a Roma, in Toscana, nel Nord Italia. Mi sono divertita moltissimo, ma credo che non mi ricapiterà. Non mi sento un’attrice, ma una pilota".

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Cosa pensa della vicenda di Susie Stoddart, l’ultima donna a guidare una F1 e moglie di Toto Wolff organizzatrice della F1 Academy per donne, accusata dalla Fia?
"Una brutta storia, ma l’Academy non la seguo. Penso sia una bella iniziativa per includere di più le donne, ma la seguirò solo quando vedrò che la vincitrice finisce davvero in F1. A me i campionati per sole donne non piacciono. Al volante se sei uomo o donna non cambia nulla. L’unica differenza che si vede è se sai guidare o non sai guidare".

Lo fa in Arabia, paese che ha dato la patente alla donne solo cinque anni fa e dove non potete entrare negli stadi…
"Mi piacerebbe dire tante cose su questo, però non posso rispondere. È meglio così".

Ha paura di ripercussioni?
"No. Alla fine non sono a casa mia, ma ospite di un Paese e devo rispettare le loro tradizioni e il loro culto anche se la situazione non è facile. Non metto il velo, quello no, neppure quando tolgo il casco. Ma quando devo andare a mangiare un hamburger da McDonalds devo entrare anch’io dalla porta riservata alle donne".

Correre con la scritta OnlyFans sulla macchina è un atto di ribellione?
"Qui non sanno neppure cosa sia, è bandito. OnlyFans ha creduto in me e mi aiuta da due anni. Nell’immaginario collettivo è un social sessuale, una cosa che mi infastidisce parecchio. Nei miei profili social non troverete una foto che non sia nel contesto racing. Ogni giorno posto foto, video, resoconti. E sempre più atleti hanno capito che OnlyFans ti permette di essere più in contatto con la tua community. Che è poi è il mondo dove voglio arrivare. Adesso però scusate, ma mi aspetta l’asado preparato al bivacco dagli argentini…".

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TORINO - "Papà, da piccola giocavo con le bambole? Dice che non gli pare, d’altronde anch’io non ne ho ricordo". Rebecca Busi risponde così dall’Arabia a una domanda se vogliamo banale. Di sicuro ricorda una macchinina elettrica bianca. Di quelle che un tempo i bambini chiedevano a Babbo Natale. Papà Roberto, che ha un’azienda di arredi religiosi, la regalò alle figlie Rachele e Rebecca, ma la minore se l’accaparrò, targandola Reby01. La prima stimmate di un destino a quattro ruote e battagliero che l’ha portata due anni fa ad essere la più giovane partecipante alla Dakar e ora, alla terza edizione, la prima da professionista, l’unica donna italiana al via. Rebecca Busi, 27 anni, laurea e master in Economia, è pronta a salire sulla sua Maverick Cam Am X3 XRS RR, un buggy small size (900 cc) ma full power (200 cv) sulle dune e le pietraie dell’Arabia Saudita. Senza velo, ma l’arcobaleno simbolo della libertà sul casco, come Lewis Hamilton quando ha corso da queste parti in F1. E con sponsor OnlyFans, un social nato per gli adulti che re Salman ha bandito.

Rebecca, da dove nasce la passione per i motori?
"È una faccenda di famiglia. Papà correva in moto, ha fatto tre Pharaons. Zio Franco in auto, sempre nei rally. I weekend li passavo a vedere le loro gare. All’inizio a dire il vero era più odio che amore, perché mi portavano via dagli amici, ma mi divertivo a fare i refueling e a rubare l’acqua con i sali minerali dalla borraccia. Poi appena potuto ho voluto provare. Solo che papà mi faceva fare la navigatrice. E io volevo guidare".

Come l’ha vinta?
"Rompendo, come sempre".

E la Dakar come nasce?
"Durante la pandemia. Sono una che ama la libertà, la vita all’aria aperta, l’avventura. Gareggiavo già da tempo. Ho provato con i kart, ma volevano darmi una zavorra per il mio peso e queste cose non mi piacciono. Poi i rally. A casa mi sentivo oppressa e m’è venuta questa idea. Papà mi ha detto: “Guarda: uno costa tanto, due bisogna trovare una persona che sappia navigare e fare il meccanico”".

E come ha risolto i due problemi?
"Ho venduto la macchina e col ricavato ho chiuso il budget e un po’ ripagato l’aiuto dei miei, comprandone una a mia sorella. La “persona” l’ho trovata in Roberto Musi, un signore di Bologna che aveva già corso la Dakar Classic. Il mio punto di partenza, con una Range Rover del 1992".

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