Pierluigi Pardo, 42 anni, giornalista sportivo di Mediaset, tornerà da agosto sugli schermi con Tikitaka, il programma di calcio che si è confermato campione di ascolti anche nell’ultima stagione televisiva. Con lui abbiamo parlato della retorica nel giornalismo sportivo, proprio ora che questa arte antichissima viene riscoperta e alla quale la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita - Salute San Raffaele di Milano, in collaborazione con Mediaset, ha dedicato un master. www.unisr.it L’arte della retorica e le notizie. Come è cambiato il modo di raccontare i fatti? «Viviamo in un’epoca di comunicazione permanente. La rete, i social network, i canali di informazione h24 hanno moltiplicato quantità e frequenza delle notizie che riceviamo e l’utilizzo di tanti collegamenti in diretta ha certamente accelerato il ritmo della narrazione. Detto questo le regole del giornalismo rimangono sempre le stesse. Bisogna saper essere accattivanti per catturare l’attenzione del pubblico ed estremamente chiari per informarlo in maniera corretta. Linguaggio semplice ma non sciatto, ritmo e un po’ di originalità nell’esposizione».
E nel calcio?
«Il discorso è lo stesso. Certamente la passione gioca un ruolo decisivo. Raccontiamo un grande divertimento, il calcio è il nostro gioco come ripetiamo spesso a Tikitaka, e non dobbiamo mai dimenticarlo. Serve molta preparazione, anche perché il pubblico rispetto al passato è decisamente più esperto, ma anche leggerezza. L’ironia vince sempre. Rispetto al passato poi ci sono altre differenze. Nella diretta di una partita oggi la tecnologia dà una grande mano. Bisogna saper utilizzare perfettamente replay e stimoli che arrivano continuamente della regia. E poi ci sono i social network. Twitter, ad esempio. Può capitare di ricevere spunti interessanti durante una telecronaca. Ci sono siti di statistiche e opinion leader che in casi eccezionali possono diventare informazioni da usare in cronaca. Il telecronista deve essere concentrato, sveglio e piuttosto multitasking, insomma. Quello che certamente non è cambiato e non cambierà nella narrazione calcistica di ieri e di oggi è invece l’esigenza di una narrazione che sia anche epica, sentimentale. Dall’andamento di una partita dipende l’umore di moltissime persone che ci stanno guardando da casa. Sarà pure irrazionale ma intanto è così e dobbiamo tenerne conto».
Come è nato il tuo personaggio?
«Non sono un personaggio. Sono un 42enne che ha la fortuna di occuparsi di cose che gli piacciono e il privilegio di continuare a giocare con il suo lavoro. Quello che si vede in onda o sul web è quello che sono. Non resisto alla tentazione della battuta, mi piace la divagazione, vado a braccio, spesso mi emoziono. La cifra di Tikitaka è informale e generalista. Punta a coinvolgere un pubblico vasto e articolato. Non è un programma solo per addetti ai lavori e non è solo calcio. Si intreccia con altri aspetti della realtà, è un bar che contiene tutto, alto e basso, gli intellettuali e il gossip, i campioni e i polemisti. La telecronaca invece è una grande passione, una cosa a metà tra un lavoro giornalistico e una vera e propria prestazione artistica. Conta l’estetica della voce, il suono delle parole, il rapporto tra momenti concitati e pause. L’obiettivo non è solo informare ma anche divertire ed emozionare».
La metafora calcistica viene molto utilizzata anche in contesti diversi e talvolta molto seri, cosa ne pensi?
«Non mi stupisce. Il calcio è un passe-partout, amato o comunque seguito da tutti. Trovo piuttosto normale che il linguaggio del pallone possa essere mutuato dalla politica o dall’economia. Anche perché molti campi della vita umana parlano di squadra, competizione, prestazione, sfida. Noi italiani ad esempio, se fossimo un po’ più uniti saremmo davvero “una squadra fortissimi” come diceva quella canzone...».
Sei romano, a tratti sembra che ti piaccia giocare con la tua inflessione, soprattutto a Tikitaka. Funziona?
«Sono istintivo. Se mi viene la frase in romanesco la dico, e lo stesso se devo imitare l’accento barese o milanese di qualcuno che ho davanti. Nelle telecronache ovviamente uso una dizione più asciutta, in trasmissione ci si può lasciare andare di più. Anche perché accenti e inflessioni dialettali sono una ricchezza».
Un’ultima domanda: qual è il segreto della telecronaca perfetta?
«Prepararsi. Studiare mille cose e dirne poche, quelle che diventano attinenti con l’andamento della partita. Dosare momenti di racconto intenso e retorico a pause utili per far decantare la tensione. Soprattutto “vivere” il match, non aver paura di emozionarsi. Raccontare una grande partita non è soltanto un lavoro, è soprattutto un privilegio che tanti vorrebbero avere. E per farlo bene serve soprattutto tanta passione».