Il caso Nadal, i tennisti “privilegiati” e i poveri ciclisti

Le numerose infiltrazioni alla caviglia sinistra per anestetizzare il dolore al piede, ammesse dal fenomeno maiorchino, hanno scatenato la reazione sdegnata dei corridori, professionisti e amatori. Un dibattito più culturale che sportivo, quasi filosofico, destinato a durare a lungo
Il caso Nadal, i tennisti “privilegiati” e i poveri ciclisti© EPA

TORINO -  I corridori contro Nadal, i ciclisti contro i tennisti. Lasciamo pure stare gli ultrà, di una fazione o di un'altra. Quelli che detestano da sempre il fenomeno Rafa, rimestando e alimentando sul fuoriclasse maiorchino della racchetta illazioni mai supportate da uno straccio di prova a proposito di un'esuberanza fisica che sembra infinita, e che troppo spesso fa passare in secondo piano un talento tecnico pazzesco per porre invece l'indice su un atletismo esasperato al punto da sembrare innaturale, quindi foriero di sospetti. Quelli che, parimenti, difendono a prescindere i pedalatori, perché in bicicletta si fa fatica, si scalano le montagne, si rischiano cadute rovinose, si vive quasi sempre da gregari nel gruppone senza adeguate gratificazioni economiche e mediatiche; cosicché costoro, in nome ancora oggi del mito di Coppi & Bartali, sovente tendono quasi a giustificare l'ingiustificabile, e cioè la proliferazione del doping che nei decenni scorsi ha macchiato, anzi distrutto campioni che ci avevano fatto sognare, da Pantani ad Armstrong, contribuendo certamente a un inasprimento dei divieti, dei controlli e delle pene non paragonabile a quelli previsti nelle altre discipline sportive, a parte forse l'atletica. Quegli altri per i quali, invece, ciò che non è punito o anche solo scoperto è a prescindere giusto; per i quali chi vince ha sempre ragione; per i quali i ciclisti la severità se la sono andata a cercare tentando di aggirare sistematicamente e progressivamente le normative antidoping e coprire l'utilizzo di additivi illeciti.
Lasciamo stare gli ultrà, appunto, perché tanto non cambieranno mai idea, cioè militanza. È però innegabile che le dichiarazioni di Nadal dopo il prepotente trionfo sul norvegese Ruud nella finale del Roland Garros (22° slam di carriera: ven-ti-due!) abbiano scatenato un dibattito planetario che coinvolge non soltanto i partigiani del tennis e del ciclismo ma anche i neutrali appassionati di entrambi gli sport. Sport, peraltro, di enorme popolarità in tutto il mondo, con una base di praticanti/amatori senza confini numerici e geografici. Sostanzialmente, il re di Parigi – per molti il GOAT del tennis – ha detto di essersi sottoposto a numerose infiltrazioni alla caviglia sinistra (“meglio che non ti dica quante”, ha replicato ironicamente all'ex campionessa Barbara Schett che lo intervistava per Eurosport ed era entrata nel merito) per ridurre le fitte al piede quasi al punto da anestetizzarlo del tutto, consentendogli di giocare e, naturalmente, di vincere.
Senza entrare nel merito della tipologia di tali terapie per curare la sindrome di Muller-Weiss, una rara causa di dolore cronico al mesopiede (magari lo faremo più avanti, lasciando la parola a medici o comunque esperti del settore), il fatto che tali interventi analgesici siano consentiti ai tennisti (Nadal mica è scemo, se vi fa ricorso e poi ne parla pure) ma non ai ciclisti, ha innescato la reazione a catena di questi ultimi, sdegnati. Guillaume Martin - parigino alfiere della Cofidis, professionista da sei anni – ha parlato così all'Equipe: «Quello che ha fatto Nadal sarebbe impossibile nel ciclismo e secondo me è giusto che sia così. Se si è malati o infortunati non si corre, non si affrontano gare, mi sembra solo che sia buon senso. Intanto, per la salute degli atleti: a lungo andare non sono sicuro che queste pratiche facciano bene. In secondo luogo, i farmaci e ancor di più le infiltrazioni non solo hanno un effetto curativo, ma possono sicuramente avere influenze sulle prestazioni o essere utilizzati per migliorare le prestazioni, quindi mi sembra molto borderline».
Eccola lì, l'allusione. E quindi, la rivendicazione: «Ci sono differenze di regolamenti e di trattamenti, quindi anche di immagine, tra i vari sport. Per un ciclista questa pratica è vietata; ma anche se non lo fosse, tutti gli darebbero addosso definendolo dopato perché c'è un background culturale attorno allo sport delle due ruote. Mentre la gente esalta Nadal per essere stato in grado di arrivare così lontano superando il dolore. Mi sembra che anche Ibrahimovic abbia detto che ha giocato con infiltrazioni al ginocchio. Loro passano per eroi perché vincono col dolore, ma di fatto si aiutano con sostanze per sopportarlo, una cosa molto al limite. Un vincitore nel ciclismo, in particolare quello del Tour de France, anche senza il minimo indizio è automaticamente accusato di essere dopato».
Thibaut Pinot, scalatore del team Groupama-FDJ, connazionale di Martin, ha rincarato la dose con un tweet al veleno: a corredo del siparietto tra Nadal e la Schett, ha commentato laconico: “Gli eroi di oggi...”. Alla replica piccata di un tennista francese, Eysseric, Pinot ha argomentato così: «Ho le mie convinzioni e un modo di vedere lo sport e le prestazioni sportive diverso dal tuo. Il mio tweet era riferito a Nadal ma potrebbe riguardare qualsiasi altro sportivo. La sua carriera o il talento non sono in discussione in nessun modo. Nelle ultime settimane vediamo troppi atleti usare questo tipo di pratiche. Io ho perso quasi due anni di carriera, per prendermi cura della mia schiena: è stato difficile ma ne vado fiero. Sono metodi questi semplicemente proibiti nel mio sport tanto denigrato». E via, all'insegna del giustizialismo social – i privilegiati contro i reietti, i tutelati contro i vessati - ma anche di passioni e culture sportive diverse. Che coinvolgono la base amatoriale forse ancor prima e più di quella professionistica. Non è iniziata adesso, di sicuro non finirà tanto presto.

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