La normalità della straordinarietà: grazie Berrettini

Il 2° trionfo in 2 anni al prestigioso Queen's non è soltanto un fantastico auspicio per Wimbledon: è una svolta storica per il nostro tennis, da sempre refrattario all'erba, e per gli appassionati italiani che si stanno abituando alla bellezza e alla normalità delle sue vittorie straordinarie
La normalità della straordinarietà: grazie Berrettini

TORINO - Sta facendo sembrare normale qualcosa di straordinario, Matteo Berrettini. E ci fa sentire rassicurante qualcosa di travolgente. Travolgente come il suo gioco: legnata terrificante di servizio, dritto lungolinea, bum, punto; bordata a uscire con taglio esterno, dritto a sventaglio, bum: punto. Quando la ribattuta dell'avversario è sufficientemente incisiva e tale da non essere neutralizzata con un vincente o anche solo attaccabile, ecco una serie di rovesci in back liftato a basso tasso di rimbalzo che crediamo avrà applaudito davanti alla tv perfino Sua Delizia Federer; fino a costruirsi, in qualche modo e quasi sempre, le condizioni favorevoli per chiudere lo scambio e conquistare il punto. Se tocca a lui rispondere, lo fa con la tranquillità di chi sa che – sostanzialmente – gli basterà strappare il servizio anche un'unica volta, per portare poi a casa il set; quindi si piglia il suo tempo, non si demoralizza mai se l'altro batte bene e intasca il game, alla peggio sa che se la giocherà al tie-break, che con quel martello pneumatico che si ritrova è inevitabilmente un'altra specialità della casa.

ERBA MAGICA - Berrettini, la straordinarietà della normalità: sì. Nessun italiano aveva mai vinto due tornei di fila sull'erba: Stoccarda la scorsa settimana, al rientro dopo quasi tre mesi di stop per intervento chirurgico alla mano destra, quella che continua a guardare e a lisciarsi a ogni cambio campo, quasi a supplicarla di far la brava; il prestigioso Queen's oggi. L'erba che per i nostri tennisti tradizionalmente (e a volte pigramente) terraioli ha sempre rappresentato qualcosa in più di una superficie ostica; dire un muro invalicabile rende meglio l'idea di tale refrattarietà, peraltro ricambiata dagli specialisti inglesi che manco ci filavano di striscio. Non è nemmeno il caso di scomodare Wimbledon, laddove sino alla finale raggiunta lo scorso luglio da Berretta il miglior risultato lo aveva ottenuto Nicola Pietrangeli in un tennis quasi preistorico, nel 1961, arrivando in semifinale e perdendo seppur in 5 set contro il leggendario Laver; da lì in poi, qualche terzo turno salutato con toni enfatici e un quarto di finale regalato nel '79 da Panatta a un rivale, il francese DuPré, che in teoria non avrebbe dovuto manco allacciargli le scarpe.

BRAVO, SIMPATICO, FURBO - In quanto al Queen's - torneo nobilissimo da gesti bianchi, nato nel 1884 per omaggiare la Regina Vittoria, che si disputa in una cornice esteticamente sublime e che nel tempo ha comunque ottenuto lo status di ATP 500 (di più, soltanto i Masters 1000 e gli Slam) – fino a qualche tempo fa i giocatori italiani li facevano forse entrare per delle visite guidate: chitarra, pizza e mandolino go home, qua non è roba per voi. Adesso, è la casa di Berrettini. Non soltanto perché lo ha vinto per due edizioni consecutive, ma perché è bello, simpatico, sorridente, soprattutto educato. Pure nei gesti tecnici, che qualche anno fa non erano così vari e raffinati e sui quali lui ha lavorato con costanza, determinazione e umiltà non comuni. E poi è anche paraculo il giusto, Matteo. “Questo per me non è un torneo di preparazione a Wimbledon, ma un obiettivo dei più prestigiosi che sono venuto qui a difendere con orgoglio. Tra un paio di settimane avrò il prossimo”. Figuratevi gli inglesi: in brodo di giuggiole. Per tacere della diffusa, partecipe e sovente estatica contemplazione della folla non soltanto femminile allorché si cambia la maglietta.

FISICO E TESTA - Abbiamo un campione erbivoro, chi l'avrebbe mai detto? Nessuno, siamo onesti. Forse giusto il suo formidabile coach Santopadre, che con quel cognome lì adesso legittima battute, giochi di parole e perfino sketch da dopopartita tipo le spruzzata d'acqua benedetta. Santopadre, il genero di Boniek, che a Wimbledon aveva giusto disputato un primo turno e mai era entrato nei 100; ora è il leader di un team che tutti applaudono e tanti invidiano. Oltre a migliorare tennisticamente e fisicamente Matteo, Vincenzo e i suoi collaboratori (tra i quali spiccano il “motivatore” Stefano Massari e - ca va sans dire - il papà e il fratello) hanno saputo proteggerlo mentalmente nell'ultimo anno disgraziato di infortuni (dall'atroce delusione delle Finals torinesi all'edema alla mano destra che lo aveva costretto al ritiro a Miami, passando per i dolori addominali e ancor più dolorosi forfait) che avrebbero potuto scoraggiare, addirittura deprimere un atleta poco solido sul piano psicologico. Inducendolo magari a gridare alla sfiga, all'insegna troppo spesso italica del povero me, o anche soltanto a cercare delle attenuanti. Macché: ri-pronti, ri-via. Bum bum bum. Alé. Sorrisi, vittorie. Nove su nove sull'erba, dalla ripartenza a oggi. Al verde, però, solo chi ci gioca contro.

FAVORITO? NO, PENALIZZATO - C'è chi, forse più per scaramanzia che non per scarsa considerazione o fiducia, rimarca il livello non eccelso degli avversari liquidati in queste due settimane. Ora, al di là che non è vero (Albot, Sonego, Otte e Murray a Stoccarda; Evans, Kudla, Paul, Van de Zandschulp e Krajinovic a Londra: provateci voi, verrebbe da dire), non è colpa di Matteo se alcuni top – non solo Nadal e Djokovic - sono fuori causa per questioni fisiche e se a Wimbledon non potrà giocare il reietto Medvedev, numero 1 al mondo escluso come Rublev per ragioni politiche in quanto russo. Il primo penalizzato dal fatto che il torneo dei tornei non assegnerà punti è lui: perderà tutti quelli conquistati nel '21 arrivando all'ultimo atto e se anche – cose dell'altro mondo - dovesse trionfare, si ritroverebbe con una classifica ridicola (intorno al numero 20) considerato il suo livello da top 10, assurdamente penalizzante per i sorteggi nei tabelloni successivi, US Open compresi. Ora sta al n.11, perché vincendo il Queen's da detentore per l'ATP ha fatto il suo, e in classifica non guadagna posizioni. E in ogni caso, gli avversari sovente sembrano scarsi in relazione a quanto tu sei forte. Ieri, nella semi contro Cilic, Krajinovic sembrava un mix tra Edberg e Sampras; oggi è parso uno qualsiasi, mai in partita, mai dando la sensazione di poter fare realmente male al suo dirimpettaio. Al nostro, cioè.

UN GRAN PEZZO DI RICAMBIO! - Settimo titolo ATP in carriera, il 4° sull'erba dove dal 2019 ha vinto 32 degli ultimi 35 incontri. Un anno fa a Wimbledon cedette solo a Djokovic, allora in mostruosa versione Djoker, ma dopo averlo spaventato strappandogli il primo set. Da novembre a oggi gliene sono successe di tutti i colori, in più ha dovuto reggere e gestire la pressione di essere e rimanere il migliore di una generazione d'italiani strepitosa – da Sinner a Musetti, passando per Sonego e l'impronosticabile ma sempre talentuosissimo Fognini - e potenzialmente in grado di rimescolare le carte ai vertici mondiali nel prossimo futuro. Ci stiamo abituando a vederlo vincere i tornei, quando fino all'altro ieri – tennisticamente parlando, chiaro - ci esaltavamo per gli ottavi di finale o per gli exploit nei Challenger, vagheggiando ancora la Coppa Davis di Panatta & C. Soprattutto, ci stiamo abituando a considerare queste vittorie normali. La straordinarietà della normalità, davvero.

Grazie, Matteo. Vai, Berretta.

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