Il lungo addio di Federer: la cronistoria di una leggenda

Torna e trionfa in Australia 2017. Poi i malanni hanno il sopravvento
Il lungo addio di Federer: la cronistoria di una leggenda © Getty Images for Laver Cup

La fine perfetta non esiste. I più grandi non sanno dire basta. Non sono ingordi, sono inconsapevoli, hanno paura. Devono dimostrare sempre qualcos’altro. Per lo più a sé stessi. E se la fine è stata perfetta, ritornano: Michael Jordan l’aveva scritta con Chicago e ha deciso di imbrattarla (si fa per dire eh) tornando in un’altra squadra. Cosa deve essere l’estrema competitività... Roger Federer non l’ha nemmeno potuta scrivere la fine perfetta, si è fermato alla riga precedente. C’erano stati avvisi, del resto, che il destino la pensava diversamente. Per esempio a 34 anni un atleta lo immagina. Che il peggio deve ancora arrivare. Perlomeno se lo aspetta. Non può essere una sconfitta ben più evidente di quanto dica il risultato nella semifinale di Melbourne contro Djokovic. Roger Federer strappa il terzo set, ma non dà mai l’impressione di poter riemergere. Non sa in quell’inizio di 2016 che il peggio deve per l’appunto arrivare. Su un movimento banale, in casa, il ginocchio comincia a far male, si gonfia. La prima operazione chirurgica della carriera lo attende. E nella riabilitazione ricompare il mal di schiena. I tempi si allungano. Roger può giocare poche partite prima di Wimbledon e dei Giochi di Rio, l’oro mancante, gli obiettivi dichiarati. Nella semifinale di Wimbledon, una scivolata e il dolore al ginocchio ritorna a bussare alle porte del cervello di Federer. Che annuncia così la rinuncia alle Olimpiadi e lo stop per il resto della stagione. Siccome è recidiva, il popolo del tennis teme davvero sia arrivata la fine. 

Eppure Roger lo spiega: «Il corpo reclama attenzione ma non ho intenzione di smettere». Sotto sotto, nella sua testa, progetta l’ennesimo capolavoro. E la sua gente lo aspetta. Decide di ripresentarsi (sotto lauto compenso) a Perth per la Hopman Cup e all’allenamento a porte aperte si presentano 5.000 anime fiammeggianti. Lo svizzero, nel raccontare gli ultimi mesi, finisce per prendersela con il mondo del tennis che spende poco per l’antidoping. Anche la sua anima sindacalista riemerge. E a Melbourne ritorna lui, il vero Federer, pur partendo dalla testa di serie n. 17. E sembra la restaurazione del regno: escono tutti in anticipo, fatta eccezione per Roger e Rafa. Federer ha un ultimo ostacolo prima della finale, Stan Wawrinka. Che sembra favorito mano a mano che la partita si allunga e Roger chiama il fisioterapista per un problema all’adduttore. E vince, va in finale, non vince uno Slam da Wimbledon 2012. Ritrova Rafa come non succede dal 2011. La finale femminile è tra le sorelle Williams, evento divenuto ancor più raro. Un tuffo nel passato, con ritorno al futuro. E la finale è lo spettacolo atteso, è emozione, stupore per il rendimento e l caparbietà dei due amici rivali. Roger è uno splendore, rischia e su questa scommessa d’attacco la spunta in cinque set con 57 errori gratuiti, più che bilanciati da 73 vincenti, 20 ace. Di cocciutaggine, trasmessa anche da coach Ivan Ljubicic. Finisce come spesso gli succede in Australia, in lacrime. E frasi che lasciano intendere l’addio vicino: «Spero di tornare l’anno prossimo, ma se non sarà così è stato bellissimo». Del resto rispetto alle attese della vigilia è andata benone. Invece è un anno straordinario per l’età del genio: Indian Wells battendo ancora Nadal e poi Wawrinka. Lascia perdere la terra e si ripresenta sui prati. Annette Halle e a Wimbledon è di nuovo una locomotiva inarrestabile. Marin Cilic in finale lo infastidisce come può fare una piuma. Alla fine dell’anno magico si ritrova al n. 2 del mondo e con 7 titoli vinti. E il 2018 comincia ancora meglio, la Hopman Cup con la Svizzera che non vinceva da 17 anni e di nuovo l’Australian Open per fare cifra tonda, venti! Stavolta però faticando cinque set contro Cilic e poi piangendo come un bambino con la Coppa tra le braccia, Cilic che quasi lo consola. Torna al n. 1, si alterna con Nadal. A 37 anni sembra non aver fine.

Invece la fine è dietro l’angolo. A Melbourne 2019 uno dei giovani più arrembanti, Stefanos Tsitsipas, lo piega dopo un combattimento: 6-7 7-6 7-5 7-6. Ma Roger se la sente, si ripresenta persino sul rosso, a Madrid. Si ritira a Roma e però a Parigi arriva alla semifinale contro Nadal. A Wimbledon un Federer d’annata liquida Berrettini. Il destino lo aspetta, il 19 luglio 2019. Dall’altra parte della rete il n. 1 Djokovic. Una partita incredibile, tenuta mentale e fisica da stropicciarsi gli occhi. Il mondo tifa per lui e per la probabile fine perfetta della storia del tennista perfetto. Tardo pomeriggio, sono passate 4 ore e 11 dall’inizio della partita delle partite, quella che diventerà la finale più lunga della storia di Wimbledon. Roger, da non crederci, si è issato 8-7 con un break siglato da un passante in cross di dritto. Ace per il 30-15, ace per il 40-15: due match point di fila al quinto set sul suo servizio. Chi scommetterebbe contro? Nessuno. E invece: il nastro ferma la prima, ma sulla seconda Novak rimanda una palla normale sul rovescio di Roger. Che preso dalla fretta cerca l’incrocio vincente - quanti ne avrà tirati in carriera? - ma è fuori di una spanna. Ancora fretta, attacco corto sul dritto di Djokovic che passa incrociato. Comincia lì il lungo addio di Roger. Che infatti al quotidiano l’Equipe da Londra sussurra: «Se dovessi giocare un punto sarebbe quel match point». La bellezza della perfezione è che talvolta si manifesta imperfetta per farti riflettere. 
Nel 2020 c’è il covid di mezzo, comunque le presenze di Federer si diradano. Due interventi al ginocchio e appuntamento al 2021. Pochi tentativi, poi Wimbledon. Nessuno sa che l’ultimo valzer è il 7 luglio 2021, i quarti da più anziano della storia a 39 anni e 11 mesi. Battuto da Hurkacz, nel suo giardino. Il ginocchio protesta: due interventi. Poi Roger ci prova e ci pensa 14 mesi. E tutti lo aspettano, Federer è immanente. Forse anche adesso. 

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