La seconda vita di Paul. Titolo risaputo, se siete d’accordo. Letto, riletto e straletto, tutto sta a mettersi d’accordo su chi sia il Paul di cui andiamo a rovistare nell’archivio dei fatti privati. A me interessa il tennista, ma davvero non ce la faccio a presentarlo per primo. Un dato è certo, per quanto possa apparire inconsueto. Di Paul che saltellano gaiamente da una vita all’altra, come un surf fra le onde, ce ne sono quanti volete. Uno, per dire, è sir Paul McCartney, che forse è oltre la seconda vita, ora che a sentirlo intonare “When I’m Sixty Four” fa pensare stia raccontando della sua gioventù. Una seconda vita di sosia, di sostituzioni di persona, di morti apparenti, secondo lo schema che sembra essere stato varato da John Lennon sulla presunta fine del Paul originario, schiantatosi in una notte buia e tempestosa sulla sua spider da poco acquistata. Uno scherzo, forse tirato per la giacchetta un po’ troppo a lungo.
Paul e la vita agonistica
Ma vivido di libri, di indagini, di resoconti, di studi anatomici. Se ne leggete uno, c’è la possibilità che anche voi scivoliate nella grande mistica del McCartney che fu, quello vero, quello di Yesterday, e che tutto il resto sia posticcio. Un altro, più che Paul era Pablo, ma è lo stesso. Picasso di cognome. Che nei suoi 91 anni ha avuto tante vite quante sono state le mogli, e altrettante quante sono state le stagioni dei suoi estri pittorici. Due mogli, infinite amanti, undici periodi artistici, dal cubismo al periodo africano. Ce n’è abbastanza per potersi permettere una frase diventata famosa… «Ci si mette un’infinità di tempo a diventare giovani». Era la sua filosofia. Ce ne sarebbero a decine, ma eccomi al tennista, di cognome Paul e di nome Tommy, anche lui oltre la seconda vita agonistica, forse in attesa di dare forma compiuta a una terza, che potrebbe essere quella dell’affermazione definitiva. Magari non subito, visto che il Paul in questione è chiamato nella nostra notte (Ashe Stadium) alla disfida degli ottavi di finale con il nostro Sinner. Talento precoce, terzo tra gli juniores, individuato da Roger Federer come uno dei migliori investimenti in terra americana per la sua Team8, agenzia di management che cura l’immagine di atleti in cerca di buoni contratti pubblicitari (Del Potro fu il primo, poi Zverev e Coco Gauff), declassato però dalla federazione americana con una nota a margine sulla sua scheda personale. «Il ragazzo soffre di un’accentuata sensibilità all’alcool».
I flashback
Non era vero, ma il frutto di un momento di sconforto nella sua vita di giovane atleta. Pagato indubbiamente caro. Forse troppo. I flashback riportano a otto anni fa. Tommy ne ha 18 e ha deciso di diventare un tennista professionista. È a quella decisione, la prima importante della sua vita, che si aggrappa per non cadere in depressione. In campo non riesce a fare ciò che negli allenamenti gli viene senza sforzo, e si sente trascurato dalla Usta. Mai una wild card, le danno ad altri, a lui niente. C’è la strada delle qualificazioni, gli rispondono, è quella che serve per crescere. È il 2017 quando finalmente ottiene un invito agli US Open, ha una discreta classifica (159) e si è dato da fare nei challenger per meritarla. Un buon sorteggio gli pone di fronte Taro Daniel, n. 151. Il match è una corrida, Tommy va avanti due set a uno e crolla, Taro gli sbatte la porta in faccia. Il sogno di aprire una nuova fase della carriera svanisce, la realtà invece gli resta appiccicata addosso, dolorosa. Tommy si ritrova davanti a una bottiglia. Esagera. La mattina è iscritto al primo turno del doppio con Steve Johnson, mancano dieci minuti al via e lui non c’è. È ancora a letto, e quando riescono a entrare nella sua stanza il perché è lampante. Lo svegliano e lo trascinano in campo. Dall’altra parte ci sono Fognini e Bolelli, e non c’è partita. Finisce 6-0 6-0. Il giudizio della Usta sull’episodio lo avete letto. È duro.
Le parole di Tommy
E va dritto nel profilo del giocatore. Tommy rimbalza indietro e riparte dai tornei più piccoli. Ha talento, una buona visione di gioco, un dritto che fa male, un rovescio solido negli impatti e ha gambe che gli permettono di prendere svelto la rete. Il 2020 è l’anno delle qualificazioni, il 2021 dell’ingresso nei primi 100. E nel 2023 ecco la prima grande occasione. Una semifinale agli Australian Open raggiunta battendo Struff, Davidovich Fokina, Brooksby, Bautista Agut e Shelton. Ma ha di fronte Djokovic e trova modo di impegnarlo solo nel primo set. Da quel momento, però, la sua vita nel tennis cambia. Numero 12, ora 14, Paul si mantiene in alto grazie alle variazioni che imprime al suo tennis. Le stesse che vuole sperimentare oggi, contro Sinner. «Da fondo campo Jannik gioca un tennis quasi inarrivabile», spiega. «Io lo chiamo tennis bam-bam, perché lui è sempre sulla palla ed è velocissimo nel colpirla. Abbiamo giocato a Toronto, l’ultima volta, un’esperienza che non intendo ripetere. Inutile che mi metta a far baruffa con lui da fondo. Devo gestire io il gioco e farlo senza dargli la possibilità di prendere ritmo, sennò, addio». Sono 2-1 per Sinner nei testa a testa, Paul vinse sull’erba di Eastbourne 2022, l’italiano ha prevalso sulla terra di Madrid 2022 e più nettamente sul cemento di Toronto 2023. È il terzo americano sulla strada del n. 1, dopo McDonald e Michelsen, ed è un americano di buon lignaggio, difficile da smontare, tanto più con il tifo a suo favore. Ashe Stadium, in notturna, la prima di Jannik nel torneo. La crescita di Sinner, messa in mostra nel match contro O’Connell, è in cerca di certificazione. Poi ci saranno i quarti contro Medvedev, quasi una finale anticipata.