A Wimbledon scatta l’allarme: cadono le teste di serie e c’è chi va fuori di testa

Da Zverev "Mi sento solo, non mi diverto più" a Berrettini "Si è rotto qualcosa nella mente". Sabalenka e i suoi 5 anni in cura da giovane

WIMBLEDON - All’ombra di un vulcano, convinti che sia un luna park. I tennisti scoprono di avere un problema in più, non di soldi, né di calendario stavolta, ma di fragilità. La chiamano depressione, ma le parole imbarazzano a volte e si tende ad anestetizzarle attivando sinonimi, abbattimento, disagio, avvilimento, che non cambiano la realtà delle cose. “È colpa del sistema!” è ciò che pensano tutti, ma colpisce dentro, si fa strada nella testa, diventa personale, e si risolve solo con le proprie capacità. Ti scopri bello, ricco, famoso, e con la testa che non ti fa apprezzare niente di tutto questo. Vittime del tennis mentale? Sarebbe imbarazzante scoprire che la caratteristica più precipua del tennis di oggi, quella che viene posta in fondo a un’infinità di discorsi, a ribadire che oltre è impossibile andare – "Ehhh, ma il tennis di oggi lo sapete, è uno sport della mente" – potrebbe essere stata dettata, nelle proprie regole, da una mente malata.

Zverev vede nero

È così? Qualcuno comincia a pensarlo. Il tennis ha subito in questi ultimi venti anni una trasformazione profonda, tutta a carico dei tennisti. Nuovi ruoli, un tempo sconosciuti, o poco impiegati nel tennis, si sono aggiunti a completare i quadri dei team, sempre più simili a uffici senza fissa dimora. E molti di questi riguardano la psiche. Alcuni dei nuovi “assunti” li conosco, sono bravissimi, ma della maggior parte non saprei che dire. Di sicuro qualcosa non funziona, se i tennisti, uno via l’altro, annunciano di avere “problemi di testa”. Siamo di fronte a un caso anomalo di “alta depressione”? Troppe aspettative, dettate da troppe persone, che si aggiungono a quelle personali… Sascha Zverev vede nero, non si diverte più. Forse non è mai stato un genio del tennis, sì invece un magnifico colpitore d’istinto. Ma oggi ha paura di osare. "Mi sento solo in campo", ha tentato di spiegare, "non ho motivazioni, ho bisogno d’aiuto, qualcosa mi si è rotto dentro dopo gli Australian Open".

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L'incubo di Berrettini, la confessione di Bronzetti

Viene da altre valutazioni Matteo Berrettini, ma la conclusione è quasi la stessa. "Infortuni? Stavolta mi si è rotto qui", ha detto indicando la testa dopo la svogliata sconfitta con il polacco Majchrzak, al rientro in campo dopo l’ultimo infortunio (addominali) subito al torneo di Roma. Lui che ha sempre dato risposte vincenti, ai guasti fisici, stavolta si mostra in difficoltà a ritrovare la retta via, "non ce la faccio più, smettere e tornare di continuo è un incubo". Matteo aveva già parlato di un forte stato depressivo, nella sua carriera. Ma la depressione è come la sfiga, oggi a te, domani a te… Di buono c’è che se ne parla sempre di più, e con maggiore libertà. Dopo la confessione di Lucia Bronzetti, a Madrid, sulla testa che le consiglia di mettere da parte il tennis, la Wta ha moltiplicato le consulenze gratuite con il gruppo di psicologici che riunisce nei tornei.

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Il ruolo dei genitori

"Ci vanno in tanti", ha confessato Sabalenka, "Io no in questo momento, ma l’ho fatto per cinque anni di fila quando ero più giovane". La Storia propone casi antichi, e si scopre che, nel tennis, la depressione non è solo un portato dei tempi moderni. La voglia di gettarsi nella Senna di Yannick Noah, dopo la vittoria al Roland Garros, come se il raggiungimento dell’obiettivo avesse prosciugato le motivazioni vitali. Il ritiro di sei mesi da parte di McEnroe, a conclusione del suo anno migliore, quel 1984 da oltre ottanta vittorie e tre sole sconfitte, tra le quali, però la finale parigina persa con Lendl. E il ritiro di Bjorn Borg a 26 anni, "stanco di giocare". Troppe aspettative, l’incapacità di accettare panni diversi da quelli a lungo indossati, il rimpianto della giovinezza perduta, il difficile confronto con ciò che ti dicono e la realtà dei fatti… Il professor Rodolfo Lisi, perfezionato in Posturologia e Cultura dello Sport, nonché giovane scrittore con molti saggi sul corpo degli atleti, punta il dito sulla figura dei genitori.

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Dokic e Tsitsipas: "Carriera condizionata dal padre"

"Molti tennisti sono stati succubi dell’agonismo precoce, caratterizzato da carichi di lavoro estenuanti e avviati allo sport – come ben asseriva il prof. Pellai di Milano (1999) – alla stregua di protesi per le aspirazioni di successo dei loro genitori. Credo sia uno dei motivi dell’abbandono prematuro da parte del tennista. Ma siamo sicuri che tutto questo è ciò che volevano Dokic o più recentemente Tsitsipas? Jelena ha vissuto una carriera condizionata dal padre, un tipo autoritario e aggressivo. Forse lei voleva solo divertirsi e colpire una pallina da tennis, mentre di sicuro papà Damir aveva altri obiettivi. E se fosse la stessa cosa per il greco? Non è una novità l’ingerenza di papà Apostolos nella vita del 27enne di Atene. Né lo spiacevole senso di risentimento e insofferenza che sembra accompagnare le ormai frequenti e deludenti prestazioni di Tsitsi".

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WIMBLEDON - All’ombra di un vulcano, convinti che sia un luna park. I tennisti scoprono di avere un problema in più, non di soldi, né di calendario stavolta, ma di fragilità. La chiamano depressione, ma le parole imbarazzano a volte e si tende ad anestetizzarle attivando sinonimi, abbattimento, disagio, avvilimento, che non cambiano la realtà delle cose. “È colpa del sistema!” è ciò che pensano tutti, ma colpisce dentro, si fa strada nella testa, diventa personale, e si risolve solo con le proprie capacità. Ti scopri bello, ricco, famoso, e con la testa che non ti fa apprezzare niente di tutto questo. Vittime del tennis mentale? Sarebbe imbarazzante scoprire che la caratteristica più precipua del tennis di oggi, quella che viene posta in fondo a un’infinità di discorsi, a ribadire che oltre è impossibile andare – "Ehhh, ma il tennis di oggi lo sapete, è uno sport della mente" – potrebbe essere stata dettata, nelle proprie regole, da una mente malata.

Zverev vede nero

È così? Qualcuno comincia a pensarlo. Il tennis ha subito in questi ultimi venti anni una trasformazione profonda, tutta a carico dei tennisti. Nuovi ruoli, un tempo sconosciuti, o poco impiegati nel tennis, si sono aggiunti a completare i quadri dei team, sempre più simili a uffici senza fissa dimora. E molti di questi riguardano la psiche. Alcuni dei nuovi “assunti” li conosco, sono bravissimi, ma della maggior parte non saprei che dire. Di sicuro qualcosa non funziona, se i tennisti, uno via l’altro, annunciano di avere “problemi di testa”. Siamo di fronte a un caso anomalo di “alta depressione”? Troppe aspettative, dettate da troppe persone, che si aggiungono a quelle personali… Sascha Zverev vede nero, non si diverte più. Forse non è mai stato un genio del tennis, sì invece un magnifico colpitore d’istinto. Ma oggi ha paura di osare. "Mi sento solo in campo", ha tentato di spiegare, "non ho motivazioni, ho bisogno d’aiuto, qualcosa mi si è rotto dentro dopo gli Australian Open".

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