WIMBLEDON - All’ombra di un vulcano, convinti che sia un luna park. I tennisti scoprono di avere un problema in più, non di soldi, né di calendario stavolta, ma di fragilità. La chiamano depressione, ma le parole imbarazzano a volte e si tende ad anestetizzarle attivando sinonimi, abbattimento, disagio, avvilimento, che non cambiano la realtà delle cose. “È colpa del sistema!” è ciò che pensano tutti, ma colpisce dentro, si fa strada nella testa, diventa personale, e si risolve solo con le proprie capacità. Ti scopri bello, ricco, famoso, e con la testa che non ti fa apprezzare niente di tutto questo. Vittime del tennis mentale? Sarebbe imbarazzante scoprire che la caratteristica più precipua del tennis di oggi, quella che viene posta in fondo a un’infinità di discorsi, a ribadire che oltre è impossibile andare – "Ehhh, ma il tennis di oggi lo sapete, è uno sport della mente" – potrebbe essere stata dettata, nelle proprie regole, da una mente malata.

Zverev vede nero
È così? Qualcuno comincia a pensarlo. Il tennis ha subito in questi ultimi venti anni una trasformazione profonda, tutta a carico dei tennisti. Nuovi ruoli, un tempo sconosciuti, o poco impiegati nel tennis, si sono aggiunti a completare i quadri dei team, sempre più simili a uffici senza fissa dimora. E molti di questi riguardano la psiche. Alcuni dei nuovi “assunti” li conosco, sono bravissimi, ma della maggior parte non saprei che dire. Di sicuro qualcosa non funziona, se i tennisti, uno via l’altro, annunciano di avere “problemi di testa”. Siamo di fronte a un caso anomalo di “alta depressione”? Troppe aspettative, dettate da troppe persone, che si aggiungono a quelle personali… Sascha Zverev vede nero, non si diverte più. Forse non è mai stato un genio del tennis, sì invece un magnifico colpitore d’istinto. Ma oggi ha paura di osare. "Mi sento solo in campo", ha tentato di spiegare, "non ho motivazioni, ho bisogno d’aiuto, qualcosa mi si è rotto dentro dopo gli Australian Open".