La Juventus, l'Italia e l'Europeo: Gatti l'operaio e l'occhio di Spalletti

Il difensore non è stato convocato per questa tournée Usa ma non vuole che le precedenti chiamate rimangano episodi isolati. Il finale di stagione decisivo per il suo futuro azzurro
La Juventus, l'Italia e l'Europeo: Gatti l'operaio e l'occhio di Spalletti© /Agenzia Aldo Liverani Sas

Federico Gatti misura i campi della Continassa in una dimensione rarefatta: quella che avviluppa i (pochi) giocatori che restano ad allenarsi in casa durante la sosta delle Nazionali. Un’atmosfera che, però, rischia di diventare un poco plumbea se quell’azzurro lo avevi assaporato e che ora invece intravvedi solo da lontano e in una visione parecchio sfocata. Molto è anche dovuto al fatto che nel nostro paese il calcio, soprattutto in questa fase storica, non procede su percorsi lineari ma per strappi un poco forzati e, così, si rivela un’accelerazione ardita quella che portò alla chiamata di Federico Gatti in Nazionale. Figlia della inesausta ricerca dell’allora ct Roberto Mancini e di una voglia di bruciare le tappe nella rabdomantica scoperta di soluzioni. Che poi Gatti, pur protagonista di una bellissima ed edificante storia di calcio e di vita, fosse già pronto per quel salto è tutto un altro discorso.

Per carità: lui ha fatto di tutto per giocare al meglio le proprie carte e non le ha sbagliate nella gara d’esodio contro l’Inghilterra in una plumbea serata a porte chiuse a Wolverhampton. A dirla tutta gli è girata pure male perché è toccata anche a lui, incolpevole, bere l’amarissimo calice dell’amichevole contro l’Austria a Vienna, ultimo atto prima che le altre Nazionali si esibissero in un Mondiale a cui gli azzurri erano esclusi per la seconda volta consecutiva. Una partita al clima lugubre, in un’atmosfera da epicedio degna di un romanzo di Joseph Roth. E chissà se Gatti, amante dei libri, conosce il romanziere austriaco che come nessuno ha saputo raccontare le atmosfere degli imperi e delle civiltà che implodono, vivendone dall’interno la disgregazione. E anche la prima volta con Spalletti non fu memorabile, nonostante la vittoria, e così per ora è finito fuori dai radar.

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Gatti, il volto operaio della Juve. E Spalletti

Poi, è pacifico, non sono certo le difficoltà a spaventare uno come Gatti che conosce quanto sa di sale il pane duro della fatica al di fuori del dorato mondo pallonaro. E, anzi, c’è da chiedersi se è proprio nelle situazioni di transizione e di ricostruzione che “Gattone” è più adeguato. Sta ancora imparando, infatti, in un processo di crescita costante, ma è difficile che avrebbe potuto godere di questa opportunità se si fosse trovato di fronte a una Juventus più strutturata e pronta a investire su difensori “più pronti”. Lui studia, guarda, impara, ci mette l’anima e soprattutto cerca di non lasciarsi mai condizionare dagli errori. Soprattutto da quelli più evidenti come a Sassuolo o in Coppa Italia con la Salernitana. Più lungo e complesso il lavoro di apprendimento e di affinamento sulle posture in marcatura, sulla lettura preventiva dei movimenti degli avversari in area: sfumature che non sono affatto un dettaglio nelle gare di Serie A che si decidono sul filo dell’errore.

Poi sì: Gatti ha graffiato con gol pesanti e con prestazioni tutta grinta che gli hanno fatto conquistare un posto particolare nel cuore dei tifosi bianconeri, nel solco di quella tradizione dei “giocatori operai” che hanno sempre fatto parte della storia bianconera, uno per ogni generazione. Poi, certo, conta il contesto e attorno agli operai ci devono essere gli artisti, i Pinturicchio, o i portatori di prelibatezze al caviale come Platini, ma questo è un discorso che attiene alle contingenze storiche e societarie. Gatti, di suo, non può far altro che lavorare sodo in modo da migliorare per la Juventus ma anche per “rubare l’occhio” a Spalletti che, probabilmente, un buco inatteso nello scacchiere difensivo lo dovrà riempire. E, ancora una volta, Gatti vorrà farsi trovare pronto nell’unità di crisi.

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Federico Gatti misura i campi della Continassa in una dimensione rarefatta: quella che avviluppa i (pochi) giocatori che restano ad allenarsi in casa durante la sosta delle Nazionali. Un’atmosfera che, però, rischia di diventare un poco plumbea se quell’azzurro lo avevi assaporato e che ora invece intravvedi solo da lontano e in una visione parecchio sfocata. Molto è anche dovuto al fatto che nel nostro paese il calcio, soprattutto in questa fase storica, non procede su percorsi lineari ma per strappi un poco forzati e, così, si rivela un’accelerazione ardita quella che portò alla chiamata di Federico Gatti in Nazionale. Figlia della inesausta ricerca dell’allora ct Roberto Mancini e di una voglia di bruciare le tappe nella rabdomantica scoperta di soluzioni. Che poi Gatti, pur protagonista di una bellissima ed edificante storia di calcio e di vita, fosse già pronto per quel salto è tutto un altro discorso.

Per carità: lui ha fatto di tutto per giocare al meglio le proprie carte e non le ha sbagliate nella gara d’esodio contro l’Inghilterra in una plumbea serata a porte chiuse a Wolverhampton. A dirla tutta gli è girata pure male perché è toccata anche a lui, incolpevole, bere l’amarissimo calice dell’amichevole contro l’Austria a Vienna, ultimo atto prima che le altre Nazionali si esibissero in un Mondiale a cui gli azzurri erano esclusi per la seconda volta consecutiva. Una partita al clima lugubre, in un’atmosfera da epicedio degna di un romanzo di Joseph Roth. E chissà se Gatti, amante dei libri, conosce il romanziere austriaco che come nessuno ha saputo raccontare le atmosfere degli imperi e delle civiltà che implodono, vivendone dall’interno la disgregazione. E anche la prima volta con Spalletti non fu memorabile, nonostante la vittoria, e così per ora è finito fuori dai radar.

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