Entrato nella Storia del tennis scalando una montagna a mani nude, arrampicandosi paziente, attento ai piccoli dislivelli sui quali poggiarsi e da lì prendere nuovo slancio, tutte le parti del proprio corpo già indolenzite dallo sforzo pronte a fare perno sulla sola forza di volontà per spingersi ancora più in alto. Ma via via sentendosi sempre più leggero, quando l’aria si è fatta più fine. Jannik Sinner la conosce bene quell’aria, che sferza le gote e penetra dappertutto, sempre però rigenerante, rinvigorente. È lì che ha avvertito di essere vicino alla meta, non c’è stato bisogno nemmeno di guardarla, ha accelerato i passi, si è ritrovato. È stato uno Slam da scalatore, una vittoria sulla Cima Coppi del tennis. In una stramba domenica che l’ha obbligato a ripercorrere tutta la sua vita, quasi le divinità del nostro sport avessero preparato per lui una sceneggiatura a schema diagrammatico, nella quale il percorso era nascosto da una serie d’incognite ma la soluzione a portata di mano: puoi ancora vincere, ma solo se torni sui tuoi passi.
Il rebus di Sinner
Jannik ha capito in tempo, era come un rebus da sciogliere, ha avuto l’idea giusta, e ha scalato il tennis. Ma dite, potevamo aspettarci qualcosa di diverso da un ragazzo nato in un paese con vista sulle Dolomiti? Che poi, l’idea giusta l’aveva davanti ai propri occhi, bastava trattenerli solo un attimo di più sugli sguardi sempre più liquidi di Daniil Medvedev, che aveva preso il sopravvento, sì, e non era così lontano dal portare a casa il trofeo, forse, ma nei modi, nelle scelte, nei contenuti del suo tennis mostrava di avere fretta, una fretta terribile, perché sapeva di essere a scadenza, ormai vicino alla soglia oltre la quale si va verso la raccolta differenziata. Bastava allungare gli scambi... A questo si è dedicato Sinner con l’accurata efficienza di chi sa che sta giocando l’ultima carta a disposizione. E su quelle raffiche sempre più precise e ineluttabili, i due primi set vinti dal russo dall’alto di un tennis carico di buoni propositi e fulminante negli angoli aper- ti dal rovescio, sono sbiaditi a mero ricordo.

“Scendere in campo con il sorriso”
Si erano notati i primi affanni di Medvedev già nel secondo set, ma era presto per decretarlo cotto a puntino, anzi, le soluzioni in mano al russo erano ancora apertamente ingestibili da un Sinner che soffriva di alta pressione. Lui, Semola, ha provato a “scende re in campo con il sorriso”, come aveva annunciato, convinto che una finale così, la sua prima nello Slam, fosse da affrontare in leggerezza, da godere come un film visto in compagnia dei tanti che ormai dichiarano apertamente il proprio tifo per il Capo Carota. Ma la realtà, con tutti i suoi annessi e connessi, l’ha fatto sbandare. L’ingresso nella Storia. Il primo italiano che raggiunge la finale nello Slam più lontano che vi sia. E quel muro di pubblico sulle tribune della Laver Arena, dal quale ti senti accerchiato. La presenza sugli spalti di chi quella stessa Storia l’ha costruita prima, e più a lungo di tanti altri: Rodney Laver, the Rocket, il razzo... Federer non trovò di meglio che piangergli sulla spalla.
