Pagina 2 | Mazzone e lo scandalo del Totonero: “Ho vinto lo Scudetto degli onesti”

Da ormai una dozzina d'anni Carlo Mazzone si sta godendo la più che meritata pensione calcistica, lontano da telecamere, taccuini e microfoni. Lo protegge l'amore della moglie Maria Pia, di figli e nipoti, che popolano la casa sulle colline ascolane dove il Sor Carletto vive i tempi supplementari di un'esistenza andata, che chiede ora solo un po' di riposo e serenità dopo essersi sudato stipendi e un angolo di gloria sui campi di tutta Italia, dal più polveroso al più nobile.

Prima difensore centrale-mediano elegante, ma un po' troppo lento per arrivare ad alti livelli, poi allenatore iconico, colui che in provincia ha costruito una carriera della quale nemmeno chi ha allenato o giocato in piazze più importanti può farsi vanto. Le sue conferenze stampa sono state anche momenti di conoscenza intima e intimistica del personaggio, a margine della presentazione o del commento di una partita, sono emersi ricordi della sua infanzia, della sua crescita, di una vita sempre con un pallone nelle vicinanze.

Mazzone e il tifo per la Roma

Carlo Mazzone ha iniziato a tifare Roma fin dai tempi della scuola primaria, nel quartiere di Trastevere. «Nei giorni seguenti la fine della Seconda guerra mondiale - svelò un giorno - i soldati americani passavano per le vie di Roma e regalavano a noi bambini cioccolato e chewing-gum, nemmeno sapevamo cosa fossero, ma ci piacevano eccome se ci piacevano. Eravamo noi però a spiegare loro cosa fosse il calcio. Giorni in cui c'era voglia di rinascita dopo la paura, le bombe, i morti, le tragedie, le corse nei rifugi. Ero piccolo, ma non ho dimenticato nulla». Aveva solo cinque anni all'epoca del primo scudetto giallorosso, datato 1942, Mazzone è legato più che altro alla Roma che Gipo Viani riportò in Serie A nei primi anni Cinquanta e che sbarcò poi in Europa con i gol di Carlo Galli, uno dei suoi primi idoli.

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Brescia-Atalanta, la corsa di Mazzone

Non un'infanzia e un'adolescenza facili: «Mia madre era una gran donna - ha detto spesso - che per far quadrare i conti e mettere insieme il pranzo con la cena in una famiglia numerosa, andava al mercato a mezzogiorno quando erano già passati i ricchi e i prodotti da mangiare o quelli con cui vestirci costavano meno». Reagì nel modo che tutti ben ricordano, da allenatore del Brescia, con la celebre corsa sotto la curva dei tifosi atalantini dopo aver sentito il coro con cui da anni lo apostrofavano: "Carlo Mazzone, figlio di p..". Disse: «Faccio parte di quei figli che hanno perso la mamma quando era ancora troppo giovane per morire. Fece l'ultimo respiro tra le mie braccia mentre la stavo adagiando dalla poltrona al letto per renderle meno sofferte possibili le ultime ore di vita. Aveva combattuto a lungo contro una terribile malattia, per me fu il dolore più grande. Erano anni che i tifosi atalantini prendevano di mira quella povera donna, che non c'entrava nulla e che non c'era più. Mi cantavano quel coro fin dai tempi in cui allenavo la Roma. Durante un Brescia-Atalanta mi andò il sangue alla testa e decisi di reagire come avrei voluto fare già tanto tempo prima». Urlò a più riprese: «Li mortacci vostri, li mortacci vostri», qualche anno dopo si pentì, ma solo perché capì che dopo aver dato tanto al calcio italiano c'era chi lo ricordava solo per quella benedetta-maledetta corsa.

Mazzone e il suo scudetto

Lui, che aveva fatto molto altro e che alla guida del Catanzaro aveva conquistato «lo scudetto dell'onestà». «Nel 1980 scoppiò il Totonero, l'anno prima ero riuscito a portare le aquile giallorosse nel massimo campionato. Lottammo contro quella bufera, chiudemmo terz'ultimi e quindi in teoria retrocessi, ma le penalizzazioni di Milan e Lazio, spedite in B dal tribunale sportivo, portarono al nostro ripescaggio, una parola che però non mi piace. Altro che ripescaggio, quello fu lo scudetto degli onesti. Il mio scudetto personale. Non ho vinto uno scudetto vero e proprio, ma nessuno come me può dire di avere in bacheca un titolo di quel tipo». In quel Catanzaro c'erano Claudio Ranieri, Piero Braglia, Leonardo Menichini, Enrico Nicolini, tutti poi diventati allenatori professionisti, sulla scia del grande maestro. Così come ad Ascoli Carlo Mazzone svezzò Walter Alfredo Novellino e Beppe Iachini, tutt'ora sulla breccia. In tanti hanno seguito il suo esempio tattico, calpestando la strada che lui aveva tracciato e che aveva cominciato quasi per caso. «Smisi di giocare ad Ascoli dove conobbi mia moglie. A 32 anni mi ritrovai padre di famiglia e senza un lavoro. Costantino Rozzi mi propose di allenare nel settore giovanile, mi stava bene perché da lì difficilmente mi avrebbero mandato via. Non c'erano pressioni da risultato, dovevo far crescere i ragazzi, ma quando dopo soli due anni il presidente mi chiese di prendere in mano la prima squadra facemmo un patto: se mi avesse esonerato, avrebbe dovuto prendermi a lavorare nella sua azienda. Il ruolo dell'allenatore inizialmente mi spaventava, troppa precarietà». Eravamo a cavallo tra i Sessanta e i Settanta, anni di piombo, di rivoluzioni, di austerity. Ci stava che Carletto Mazzone volesse tutelarsi. Portando il Picchio bianconero dalla C alla A, ottenne gloria imperitura nella cittadina marchigiana dove da qualche anno gli è stato dedicato anche un settore allo stadio "Del Duca", situazione inusuale per uno sportivo ancora in vita.

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Mazzone, dal Paron a Zeman

La prima esperienza fuori Ascoli fu alla Fiorentina, che Nereo Rocco lasciò nella primavera del 1975, appena prima che i viola giocassero all'Olimpico di Roma la finale di Coppa Italia vinta sul Milan. «Rocco era un gran signore. Mi segnalò ai dirigenti come suo successore e voleva che andassi in panchina per cominciare subito con una finale e magari con una vittoria prestigiosa. Non mi sembrava giusto, allenai la squadra nei giorni precedenti, ma lasciai che a guidarla fu il quasi mio omonimo Mazzoni, il vice allenatore. Mi accomodai in tribuna in quello stadio, che era la mia seconda casa ed assistetti al trionfo da spettatore». Il sogno di una vita, allenare la Roma dove aveva giocato solo nel settore giovanile, si concretizzò a metà anni Novanta. «Era una Rometta, ma non ci pensai un attimo. Quando vincemmo il derby contro la Lazio di Zeman feci la prima corsa sotto una curva, andando ad esultare con la mia gente. La settimana prima un noto quotidiano sportivo aveva fatto un confronto reparto per reparto dove loro venivano descritti superiori a noi in tutto e per tutto. Vincemmo 3-0 e fu una delle soddisfazioni più grandi della mia vita, forse la più grande perché insieme all’allenatore aveva vinto il tifoso, contro i pregiudizi».

Baggio, Guardiola e Mazzone

L’uomo delle sfide, l’uomo verticale, l’uomo che sapeva chiedere scusa. A Brescia, chiamò Roberto Baggio quando il calcio italiano si era dimenticato di lui e lo convinse a rimettersi in gioco a 33 anni: «Gli telefonai dopo aver letto su un giornale che si stava allenando nel campetto sotto casa facendo gli uno contro uno con il preparatore atletico personale, Enrique Miguel, un argentino. Gli dissi che mica aveva davanti Maradona, gli chiesi se avesse voglia di tornare a scartare giocatori veri e a farci divertire». Meno morbido l’impatto con Pep Guardiola: «Sappi che io non t’ho voluto e che nel tuo ruolo ho già Giunti per il quale ho speso parole con il Milan promettendogli che avrebbe giocato» fu il non proprio caloroso benvenuto in biancoazzurro. «Nessun problema, mister - rispose il catalano - vado anche in panchina, mi farà giocare quando avrà bisogno». E dopo soli due allenamenti fu Giunti a doversi far da parte perché il binomio Mazzone-Guardiola era già inscindibile e tale rimase quando il Pep, allenatore del Barcellona, volle il Sor Carletto in tribuna all’Olimpico per la conquista della sua prima Champions League. «Chiamò a casa un paio di giorni prima della partita, rispose mia moglie: Carlè, c’è uno che al telefono dice di essere Pep Guardiola. Come no, dopodomani c’ha la partita più importante della sua vita e vuole parlare con me? Se quello al telefono è Guardiola, io so’ Napoleone». Il Napoleone del calcio italiano.

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Brescia-Atalanta, la corsa di Mazzone

Non un'infanzia e un'adolescenza facili: «Mia madre era una gran donna - ha detto spesso - che per far quadrare i conti e mettere insieme il pranzo con la cena in una famiglia numerosa, andava al mercato a mezzogiorno quando erano già passati i ricchi e i prodotti da mangiare o quelli con cui vestirci costavano meno». Reagì nel modo che tutti ben ricordano, da allenatore del Brescia, con la celebre corsa sotto la curva dei tifosi atalantini dopo aver sentito il coro con cui da anni lo apostrofavano: "Carlo Mazzone, figlio di p..". Disse: «Faccio parte di quei figli che hanno perso la mamma quando era ancora troppo giovane per morire. Fece l'ultimo respiro tra le mie braccia mentre la stavo adagiando dalla poltrona al letto per renderle meno sofferte possibili le ultime ore di vita. Aveva combattuto a lungo contro una terribile malattia, per me fu il dolore più grande. Erano anni che i tifosi atalantini prendevano di mira quella povera donna, che non c'entrava nulla e che non c'era più. Mi cantavano quel coro fin dai tempi in cui allenavo la Roma. Durante un Brescia-Atalanta mi andò il sangue alla testa e decisi di reagire come avrei voluto fare già tanto tempo prima». Urlò a più riprese: «Li mortacci vostri, li mortacci vostri», qualche anno dopo si pentì, ma solo perché capì che dopo aver dato tanto al calcio italiano c'era chi lo ricordava solo per quella benedetta-maledetta corsa.

Mazzone e il suo scudetto

Lui, che aveva fatto molto altro e che alla guida del Catanzaro aveva conquistato «lo scudetto dell'onestà». «Nel 1980 scoppiò il Totonero, l'anno prima ero riuscito a portare le aquile giallorosse nel massimo campionato. Lottammo contro quella bufera, chiudemmo terz'ultimi e quindi in teoria retrocessi, ma le penalizzazioni di Milan e Lazio, spedite in B dal tribunale sportivo, portarono al nostro ripescaggio, una parola che però non mi piace. Altro che ripescaggio, quello fu lo scudetto degli onesti. Il mio scudetto personale. Non ho vinto uno scudetto vero e proprio, ma nessuno come me può dire di avere in bacheca un titolo di quel tipo». In quel Catanzaro c'erano Claudio Ranieri, Piero Braglia, Leonardo Menichini, Enrico Nicolini, tutti poi diventati allenatori professionisti, sulla scia del grande maestro. Così come ad Ascoli Carlo Mazzone svezzò Walter Alfredo Novellino e Beppe Iachini, tutt'ora sulla breccia. In tanti hanno seguito il suo esempio tattico, calpestando la strada che lui aveva tracciato e che aveva cominciato quasi per caso. «Smisi di giocare ad Ascoli dove conobbi mia moglie. A 32 anni mi ritrovai padre di famiglia e senza un lavoro. Costantino Rozzi mi propose di allenare nel settore giovanile, mi stava bene perché da lì difficilmente mi avrebbero mandato via. Non c'erano pressioni da risultato, dovevo far crescere i ragazzi, ma quando dopo soli due anni il presidente mi chiese di prendere in mano la prima squadra facemmo un patto: se mi avesse esonerato, avrebbe dovuto prendermi a lavorare nella sua azienda. Il ruolo dell'allenatore inizialmente mi spaventava, troppa precarietà». Eravamo a cavallo tra i Sessanta e i Settanta, anni di piombo, di rivoluzioni, di austerity. Ci stava che Carletto Mazzone volesse tutelarsi. Portando il Picchio bianconero dalla C alla A, ottenne gloria imperitura nella cittadina marchigiana dove da qualche anno gli è stato dedicato anche un settore allo stadio "Del Duca", situazione inusuale per uno sportivo ancora in vita.

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