Brescia-Atalanta, la corsa di Mazzone
Non un'infanzia e un'adolescenza facili: «Mia madre era una gran donna - ha detto spesso - che per far quadrare i conti e mettere insieme il pranzo con la cena in una famiglia numerosa, andava al mercato a mezzogiorno quando erano già passati i ricchi e i prodotti da mangiare o quelli con cui vestirci costavano meno». Reagì nel modo che tutti ben ricordano, da allenatore del Brescia, con la celebre corsa sotto la curva dei tifosi atalantini dopo aver sentito il coro con cui da anni lo apostrofavano: "Carlo Mazzone, figlio di p..". Disse: «Faccio parte di quei figli che hanno perso la mamma quando era ancora troppo giovane per morire. Fece l'ultimo respiro tra le mie braccia mentre la stavo adagiando dalla poltrona al letto per renderle meno sofferte possibili le ultime ore di vita. Aveva combattuto a lungo contro una terribile malattia, per me fu il dolore più grande. Erano anni che i tifosi atalantini prendevano di mira quella povera donna, che non c'entrava nulla e che non c'era più. Mi cantavano quel coro fin dai tempi in cui allenavo la Roma. Durante un Brescia-Atalanta mi andò il sangue alla testa e decisi di reagire come avrei voluto fare già tanto tempo prima». Urlò a più riprese: «Li mortacci vostri, li mortacci vostri», qualche anno dopo si pentì, ma solo perché capì che dopo aver dato tanto al calcio italiano c'era chi lo ricordava solo per quella benedetta-maledetta corsa.
Mazzone e il suo scudetto
Lui, che aveva fatto molto altro e che alla guida del Catanzaro aveva conquistato «lo scudetto dell'onestà». «Nel 1980 scoppiò il Totonero, l'anno prima ero riuscito a portare le aquile giallorosse nel massimo campionato. Lottammo contro quella bufera, chiudemmo terz'ultimi e quindi in teoria retrocessi, ma le penalizzazioni di Milan e Lazio, spedite in B dal tribunale sportivo, portarono al nostro ripescaggio, una parola che però non mi piace. Altro che ripescaggio, quello fu lo scudetto degli onesti. Il mio scudetto personale. Non ho vinto uno scudetto vero e proprio, ma nessuno come me può dire di avere in bacheca un titolo di quel tipo». In quel Catanzaro c'erano Claudio Ranieri, Piero Braglia, Leonardo Menichini, Enrico Nicolini, tutti poi diventati allenatori professionisti, sulla scia del grande maestro. Così come ad Ascoli Carlo Mazzone svezzò Walter Alfredo Novellino e Beppe Iachini, tutt'ora sulla breccia. In tanti hanno seguito il suo esempio tattico, calpestando la strada che lui aveva tracciato e che aveva cominciato quasi per caso. «Smisi di giocare ad Ascoli dove conobbi mia moglie. A 32 anni mi ritrovai padre di famiglia e senza un lavoro. Costantino Rozzi mi propose di allenare nel settore giovanile, mi stava bene perché da lì difficilmente mi avrebbero mandato via. Non c'erano pressioni da risultato, dovevo far crescere i ragazzi, ma quando dopo soli due anni il presidente mi chiese di prendere in mano la prima squadra facemmo un patto: se mi avesse esonerato, avrebbe dovuto prendermi a lavorare nella sua azienda. Il ruolo dell'allenatore inizialmente mi spaventava, troppa precarietà». Eravamo a cavallo tra i Sessanta e i Settanta, anni di piombo, di rivoluzioni, di austerity. Ci stava che Carletto Mazzone volesse tutelarsi. Portando il Picchio bianconero dalla C alla A, ottenne gloria imperitura nella cittadina marchigiana dove da qualche anno gli è stato dedicato anche un settore allo stadio "Del Duca", situazione inusuale per uno sportivo ancora in vita.
