Da Leggiuno a Cagliari ai cuori di tutti: Gigi Riva gigante del calcio e dell'anima

Ha ispirato Pasolini e Arpino, ha conquistato De André: Rombo di Tuono è immortale. Prima della finale Mondiale ‘70 una rivista brasiliana costruì la perfezione calcistica con il destro di Pelé e il suo sinistro

Gigi Riva è morto, a 79 anni e il calcio è diventato più povero, meno lucente, meno romantico. La notizia è arrivata come una folgore nel cuore, quando sembrava che il suo malore fosse ormai sotto controllo: una piccola operazione al cuore e poi via, di nuovo a camminare per le strade di Cagliari, circondato da quell’amore, che la gente di Sardegna, scolpita nella riconoscenza e nell’orgoglio, non gli hai mai fatto mancare. Fin da quando, nel 1963. arrivò giovane attaccante promettente, da Leggiuno, piccolo paese di quella Lombardia della nebbia e del lavoro. Cagliari sembrò a quel ragazzo, vista dall’aereo, un’isola della prigionia, un luogo della disperazione. Ma gli bastò toccare quella terra generosa per capire che lì avrebbe messo radici. Sarebbe diventata la seconda casa per lui, presto orfano dei genitori, cresciuto dalle amorevoli cure della sorella Fausta: in quel mare, tra quei monti, nell’inseguirsi delle nuvole e della nostalgia, avrebbe trovato la sua Itaca. L’isola da dove non andare più via. Riva è stato il breriano “Rombo di Tuono”, il “Bomber” del romanzo, dentro il calcio, “Azzurro tenebra” di Giovanni Arpino, un mito vivente.

Riva, Cagliari e la Sardegna

Grazie a lui, il nostro football ha conosciuto l’impresa omerica dello scudetto del Cagliari, conquistato nel 1970, realizzando un’utopia, un qualcosa che sembrava soltanto appartenere alla sfera del sogno, dell’impossibile. Il suo sinistro possedeva la potenza della rabbia e del riscatto, i banditi sardi latitanti andavano a vederlo allo stadio pur rischiando la cattura da parte delle forze dell’ordine, per i pastori e per i contadini era diventato «Giggirriva», il simbolo della rinascita, di un destino. Grazia Deledda, di Nuoro, fu la prima, e per ora unica donna italiana, nel 1926, a vincere il Premio Nobel per la Letteratura, Gigi ha raggiunto un traguardo sportivo che, da quel 1970, appartiene al caleidoscopico universo delle imprese calcistiche e poetiche. Juve e Inter hanno offerto la Luna e di più per acquistarlo: ma lui ha sempre detto di no, perché quel popolo, diventato Il suo popolo, mai avrebbe meritato un tradimento da parte sua. Rimase colpito quando, andando in un paesino della Barbagia, vide nella casa di una anziana signora, sopra un comodino, la fotografia dei defunti, dei santi e accanto la sua. Per quella donna «Riva era un uomo buono».

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Gigi Riva, classe senza tempo

Non serviva aggiungere altro. È stato capocannoniere, il «migliore poeta del campionato», secondo Pier Paolo Pasolini, capace di gol da incorniciare: in rovesciata, in tuffo di testa, su punizione. Con i rossoblù: 164 reti in 315 presenze. Ma anche con la Nazionale ha lasciato un segno indelebile, il sigillo della sua classe senza tempo e senza età: e ancora lui il mio realizzatore azzurro con 35 gol in 42 match. È difficile, in questi momenti di dolore e già di rimpianto, trovare le parole giuste per illustrare il campione e l’uomo. Ci restano le istantanee di una carriera e di una vita vissute con nobiltà d’animo, senza mai una polemica fuori posto, lo rivediamo mettere le mani sul feretro del suo amico fraterno e compagno di squadra Nenè: un gesto che pareva una benedizione, un saluto muto e denso di pathos.

La Nazionale e Riva

Con l’Italia ha vissuto due momenti indimenticabili: la vittoria all’Europeo nel 1968 a Roma, 2-0 alla Jugoslavia nella finale bis: rete sua, con quel suo poderoso sinistro, e gol in acrobazia del giovane Pietruzzu Anastasi, il centravanti dalla rovesciata proletaria, che ci ha lasciato nel 2020, lo stesso anno degli addii di Pablito Rossi, il goleador dal sorriso gentile del Mundial ‘82, e di Diego Armando Maradona, il Borges della pelota; poi, la celeberrima semifinale alla Coppa Rimet del 1970 in Messico, 4-3 alla Germania Ovest. Sua prodezza, ovviamente di sinistro, prima di arrivare, dopo un’altalena di emozioni, alla rete decisiva di Gianni Rivera, il fine dicitore milanista. La finale vide trionfare il Brasile (4-1) di Pelé. Una rivista messicana, per presentare quel mondiale, mostrò, in un fotomontaggio, il piede destro di O Rei e il piede sinistro di Rombo di tuono: era il modo, più semplice, per descrivere la perfezione. La Grande Bellezza. Nemmeno un grave infortunio contro l’Austria ha saputo fermarlo.

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Gigi Riva e De André

Il mondo Gigi lo conquisterà, come accompagnatore della Nazionale, in realtà come personaggio bandiera, nel 2006 a Berlino, in quella abbagliante cavalcata dei ragazzi di Marcello Lippi. Il suo posto venne preso da Luca Vialli, un altro figlio della zolla che se n’è andato, un anno fa. Indimenticabile l’incontro tra Riva e Fabrizio De André, il cantautore genovese degli ultimi, degli invisibili, dei sognatori, ma legato alla Sardegna da un sentimento d’acciaio, malgrado un duro rapimento, con la moglie Dori Ghezzi, che non gli fece mai perdere la passione per quegli orizzonti: furono ore dettate dal silenzio, di sguardi che non avevano bisogno di spiegazioni, di una stima reciproca. Faber gli regalò una chitarra, Gigi una maglia firmata.

Il nostro pensiero va ai figli Nicola e Mauro. A tutti i sardi, in ogni anfratto del nostro pianeta, che stanno piangendo il loro santo laico. Quell’eroe senza elmo che sentivano come un padre, come un fratello, come l’amico fidato. Mio figlio Santiago, torinese, lo ha amato sentendo i racconti dei nonni materni Pietro e Grazia della Barbagia. Era quella, per lui, la favola più bella per addormentarsi, altro che Biancaneve e il Gatto con gli stivali. Nel 2014, a Cagliari, ha avuto modo di abbracciare il suo beniamino, che è stato cortese, simpatico, disponibile. Io ho avuto la fortuna di conoscerlo, di intervistarlo, di passeggiare con lui. Risento la sua voce, rivedo il suo sguardo, sento il suo abbraccio. Continuerai a camminare al mio fianco, tra il profumo del mirto del rosmarino. A-Dio, Gigi caro.

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Gigi Riva è morto, a 79 anni e il calcio è diventato più povero, meno lucente, meno romantico. La notizia è arrivata come una folgore nel cuore, quando sembrava che il suo malore fosse ormai sotto controllo: una piccola operazione al cuore e poi via, di nuovo a camminare per le strade di Cagliari, circondato da quell’amore, che la gente di Sardegna, scolpita nella riconoscenza e nell’orgoglio, non gli hai mai fatto mancare. Fin da quando, nel 1963. arrivò giovane attaccante promettente, da Leggiuno, piccolo paese di quella Lombardia della nebbia e del lavoro. Cagliari sembrò a quel ragazzo, vista dall’aereo, un’isola della prigionia, un luogo della disperazione. Ma gli bastò toccare quella terra generosa per capire che lì avrebbe messo radici. Sarebbe diventata la seconda casa per lui, presto orfano dei genitori, cresciuto dalle amorevoli cure della sorella Fausta: in quel mare, tra quei monti, nell’inseguirsi delle nuvole e della nostalgia, avrebbe trovato la sua Itaca. L’isola da dove non andare più via. Riva è stato il breriano “Rombo di Tuono”, il “Bomber” del romanzo, dentro il calcio, “Azzurro tenebra” di Giovanni Arpino, un mito vivente.

Riva, Cagliari e la Sardegna

Grazie a lui, il nostro football ha conosciuto l’impresa omerica dello scudetto del Cagliari, conquistato nel 1970, realizzando un’utopia, un qualcosa che sembrava soltanto appartenere alla sfera del sogno, dell’impossibile. Il suo sinistro possedeva la potenza della rabbia e del riscatto, i banditi sardi latitanti andavano a vederlo allo stadio pur rischiando la cattura da parte delle forze dell’ordine, per i pastori e per i contadini era diventato «Giggirriva», il simbolo della rinascita, di un destino. Grazia Deledda, di Nuoro, fu la prima, e per ora unica donna italiana, nel 1926, a vincere il Premio Nobel per la Letteratura, Gigi ha raggiunto un traguardo sportivo che, da quel 1970, appartiene al caleidoscopico universo delle imprese calcistiche e poetiche. Juve e Inter hanno offerto la Luna e di più per acquistarlo: ma lui ha sempre detto di no, perché quel popolo, diventato Il suo popolo, mai avrebbe meritato un tradimento da parte sua. Rimase colpito quando, andando in un paesino della Barbagia, vide nella casa di una anziana signora, sopra un comodino, la fotografia dei defunti, dei santi e accanto la sua. Per quella donna «Riva era un uomo buono».

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