Il calcio tra Gaza, Israele e Palestina: bombardamenti, arresti e Coppa d'Asia

Calciatori licenziati o messi fuori rosa, nazionali morti sotto i bombardamenti: dalla Turchia alla Germania il conflitto dimostra che la neutralità dello sport non esiste
Il calcio tra Gaza, Israele e Palestina: bombardamenti, arresti e Coppa d'Asia© Getty Images

Per decenni è passata l’idea che il calcio, lo sport più in generale, sia neutrale. Un’idea sbagliata e falsa, visto che entrambi sono stati spesso usati per lanciare messaggi politici, sia sotto le dittature che nelle moderne democrazie. Non fa eccezione quello che sta accadendo i questi giorni relativamente alla guerra tra Israele e Hamas che si è drammaticamente innestata nel conflitto araboisraeliano e in quello israelopalestinese. L’attacco di Hamas del 7 ottobre e la risposta di Israele hanno indignato e stanno indignando il mondo intero, una guerra senza esclusione di colpi dove i civili hanno pagato e stanno pagando il prezzo più alto.

Domenica 14 gennaio, all’esordio in Coppa d’Asia il capitano della Palestina, Musab al-Battat, ha dichiarato: «In queste partite la nostra presenza deve servire come monito al mondo, per raccontare quello che sta succedendo e per ricordare a tutti che anche noi abbiamo il diritto di partecipare alle competizioni sportive». Mentre il Ct della squadra palestinese, Makram Daboub, nella conferenza stampa che precedeva la sfida con l’Iran ha detto: «Non è facile concentrarsi sulla partita. I ragazzi controllano ogni minuto le notizie sui telefonini, in albergo, sul bus, anche durante gli allenamenti». Partita vinta dall’Iran 4-1. 

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Palestinesi di Gaza in nazionale

Mohammed Saleh e Mahmoud Wadi sono gli unici due calciatori della Striscia di Gaza convocati, perché tesserati da club egiziani. Tutti gli altri o sono morti sotto le bombe o hanno rifiutato la convocazione: chi perché psicologicamente provato, chi perché logisticamente impossibilitato. Tutto questo mentre in Turchia l’attaccante israeliano dell’Antalyaspor, Sagiv Jehezkel, è stato arrestato per incitamento all’odio e il club ha rescisso il contratto perché avrebbe agito contro i valori della nazione turca; il governo israeliano ne ha organizzato il rimpatrio con un volo speciale.

Sagiv Jehezkel, domenica sera, ha festeggiato il gol del pareggio contro il Trabzonspor mostrando alle telecamere un polsino con la scritta “100 giorni, 7/10” e la stella di David, in riferimento all’attacco di Hamas e agli israeliani che ancora sono tenuti prigionieri nella Striscia di Gaza. Nei suoi confronti è scattata l’incriminazione su segnalazione dello stesso ministro della Giustizia di Ankara, Yilmaz Tunc, che su X lo ha accusato di aver mancato di rispetto ai valori della Turchia, un Paese «che rimane al fianco del popolo palestinese» vittima di quello che ha definito il «genocidio» in corso a Gaza.

Dall’inizio della guerra il presidente turco, Recep Erdogan, ha accusato Israele di essere «uno Stato terrorista» e ha elogiato Hamas come «liberatore». «Non volevo provocare nessuno e voglio che questa guerra finisca – si è difeso Jehezkel davanti al magistrato –. Da quando sono arrivato all’Antalyaspor, a settembre, non ho mai mancato di rispetto a nessuno. Volevo solo attirare l’attenzione sulla necessità di porre fine alla guerra». 

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Il caso Mazraoui

Intanto il Basaksehir di Istanbul, club considerato molto vicino a Erdogan, ha aperto un’indagine disciplinare interna sull’unico altro calciatore israeliano della Süper Lig, il 23enne Eden Karzev, dopo che aveva postato su Instagram il messaggio in inglese: «100 – riportiamoli a casa ORA», in riferimento agli ostaggi nelle mani di Hamas. Il ministro degli Esteri israeliano, Israel Katz, ha protestato per l’arresto di Jehezkel lamentando che «la Turchia si è trasformata in una turpe dittatura che va contro i valori umani e sportivi e chi arresta un calciatore per un gesto di solidarietà verso 136 persone sequestrate, in mano a un’organizzazione terroristica da più di 100 giorni, rappresenta una cultura di morte e di odio».

Lo scorso ottobre, sempre per un post su Instagram, c’è stato un caso Mazraoui in Germania: «E non pensare che Allah sia incurante di ciò che fanno coloro che commettono ingiustizie. Li sta semplicemente trattenendo fino al giorno in cui i loro occhi si congeleranno per l’orrore», aggiungendo un link che portava a una pagina che promuove la cancellazione di Israele. Johannes Steiniger, deputato della CDU al Bundestag, così come l’estrema destra tedesca, ne aveva chiesto l’espulsione dal Paese, mentre i dirigenti del Bayern Monaco prima lo hanno convocato e poi lo hanno messo fuori rosa per un po’. Un caso perché Noussair Mazraoui ha lasciato il centro sportivo da un’uscita secondaria per non confrontarsi con i giornalisti presenti e il Bayern non si è pubblicamente espresso sull’improvvisa assenza del giocatore. Sempre in quei giorni, la federazione calcistica della stella di David aveva fatto un video nel quale due squadre, solo apparentemente irriconoscibili, entravano in campo, quella rossonera teneva per mano dei bambini mentre quella biancoazzurra tendeva le mani nel vuoto, con chiaro riferimento a quelli rapiti da Hamas. 

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Un pericoloso precedente

Qualche settimana dopo il caso Mazraoui, in Germania il Mainz ha licenziato Anwar El Ghazi con effetto immediato «in risposta alle dichiarazioni e ai post del giocatore sui social media». El Ghazi è stato licenziato per un post pro Palestina (subito rimosso) con la frase «dal fiume al mare, la Palestina sarà libera», uno degli slogan usati anche da Hamas e considerato da alcuni un riferimento al mancato riconoscimento dell’esistenza di Israele.

In realtà i post sono stati più di uno e dal primo del 16 ottobre il licenziamento è arrivato il 3 novembre, dove se alcune parole potevano essere equivocate le successive prese di posizione non sembravano incitare all’odio e alla violenza. Il Mainz ha una storia particolare: è stato fondato nel 1905 da un ebreo, Eugen Salomon, che fu calciatore e primo presidente del club. Una carica che gli fu tolta dai nazisti nel 1933, Salomon provò a fuggire, ma nel 1942 fu deportato ad Auschwitz e ucciso.

Questo licenziamento però, come quello di Sagiv Jehezkel, rappresenta un precedente pericoloso, perché ogni sportivo potrà essere censurato e rischiare il lavoro per le proprie idee: oggi sul conflitto tra Hamas e Israele, domani per il razzismo, l’antisemitismo, i diritti della comunità Lgbtq+, la guerra tra Russia e Ucraina, ecc. Mentre il mondo, politico e sportivo, discute se imporre un embargo sportivo a Israele come accaduto al Sud Africa durante il regime di apartheid. Sempre in nome della neutralità dello sport.

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Per decenni è passata l’idea che il calcio, lo sport più in generale, sia neutrale. Un’idea sbagliata e falsa, visto che entrambi sono stati spesso usati per lanciare messaggi politici, sia sotto le dittature che nelle moderne democrazie. Non fa eccezione quello che sta accadendo i questi giorni relativamente alla guerra tra Israele e Hamas che si è drammaticamente innestata nel conflitto araboisraeliano e in quello israelopalestinese. L’attacco di Hamas del 7 ottobre e la risposta di Israele hanno indignato e stanno indignando il mondo intero, una guerra senza esclusione di colpi dove i civili hanno pagato e stanno pagando il prezzo più alto.

Domenica 14 gennaio, all’esordio in Coppa d’Asia il capitano della Palestina, Musab al-Battat, ha dichiarato: «In queste partite la nostra presenza deve servire come monito al mondo, per raccontare quello che sta succedendo e per ricordare a tutti che anche noi abbiamo il diritto di partecipare alle competizioni sportive». Mentre il Ct della squadra palestinese, Makram Daboub, nella conferenza stampa che precedeva la sfida con l’Iran ha detto: «Non è facile concentrarsi sulla partita. I ragazzi controllano ogni minuto le notizie sui telefonini, in albergo, sul bus, anche durante gli allenamenti». Partita vinta dall’Iran 4-1. 

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