I giocatori non si fanno più imbavagliare: che bella conquista

I giocatori non si fanno più imbavagliare: che bella conquista© Getty Images

Non è mai esistito un Mondiale così politico. Politico nel senso più ampio del termine. Socratico. Tutto è politica. Il modo di guardare ai fatti del mondo, di respirare, di pensare. Quello dell’ultima generazione di giocatori, i millenials del pallone, lascia grandi speranze. A cominciare dai calciatori dell’Iran, pronti a sfidare con il loro silenzio il regime autoritario di Teheran, ma anche i giocatori tedeschi, con la mano sulla bocca e scarpe arcobaleno.

Sono lontani i tempi in cui i calciatori, ragazzi poveri delle province e delle periferie, mal nutriti e più spesso ancora mal istruiti, erano indottrinati al mutismo. Nel 1978, mentre la dittatura argentina uccideva nel silenzio più o meno complice della stampa (anche italiana, come mostrano collezioni intere di giornali), agli azzurri fu vietato esplicitamente di parlare dei fatti fuori del campo. Troppi erano anche gli interessi economici del Paese in Argentina. La scusa era sempre la stessa: questo è sport, la politica non c’entra con noi. Come se fossero cose separate. Di Videla e Massera così nessuno parlò mai al Mundial, nemmeno il portiere svedese Hellstroem, come vorrebbe una leggenda costruita a posteriori.

Poco fu detto anche a Mosca nell’80, mentre il mondo si spaccava, o nella Cina olimpica nel 2008. Non si ricordano prese di posizione dure come le odierne. Eppure non sono passati mica secoli, ma appena qualche decennio. La verità è che questa generazione di calciatori ha vissuto due episodi cruciali negli ultimi anni. Prima c’è stato il Covid, poi la guerra. In pandemia molti hanno capito come la libertà, anche di circolazione, sia un bene irrinunciabile. Mai i campioni si erano trovati lontani dalle luci, isolati nelle loro case, in numerosi casi in fila come tutti al supermercato per una spesa razionata. Il conflitto in Ucraina, il primo fra sovranità nazionali nelle terre europee dalla caduta di Berlino nel 1945, ha poi ridestato l’altra parte delle coscienze: non si può rimanere ignavi, spettatori passivi, di fronte a un mondo che cambia.

È mutata la mentalità, sono cambiate le consapevolezze degli stessi atleti, penso alle coraggiose donne iraniane e al loro velo sollevato. Ma penso anche ai tennisti russi che invocano la pace, alle decine di uomini e donne di sport pronte a lottare contro le discriminazioni, per i diritti civili, contro il razzismo. Il “black lives matter” è stato uno dei movimenti maggiori a livello di impegno civile, che richiama Smith e Carlos a Città del Messico, ma anche la difficoltà vissuta da molti atleti nelle periferie metropolitane prima di diventare celebri. Quella dei calciatori e degli sportivi in genere è una prova pedagogica, in senso esteso culturale, che contrasta in maniera evidente con la miopia delle istituzioni che dovrebbero guidarlo. Ad esempio il Cio, ma in queste ore soprattutto la Fifa, coperta di ridicolo prima ancora che di vergogna. Le minacce dei cartellini gialli per la fascia variopinta che i capitani avrebbero voluto vestire a favore della comunità Lgbt, la comica ispezione del guardalinee al braccio di Neuer, il vademecum su abbracci e dintorni.

Nel 1978, per tornare sempre lì, nel sonno della ragione, il tedesco Neuberger, papavero della Fifa, tornando da Buenos Aires disse una frase lapidaria: «Gli stadi sono a posto, noi non ci occupiamo di politica». La Fifa è rimasta ad allora, schiava della realpolitik vista anche in Russia quattro anni fa e nella simpatia costante per soldi&potere. La differenza rispetto ad allora è che i calciatori non stanno più zitti, non accettano di essere imbavagliati di fronte all’abuso di potere. Non hanno più addosso la Fifa ed è una splendida conquista.

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