Pensiamo agli spareggi, poi riforme o estinzione

Il carrozzone del calcio italiano e la metafora del calabrone. Che ogni volta si schianta...
Pensiamo agli spareggi, poi riforme o estinzione© LAPRESSE

Ora pensiamo ad andare ai Mondiali. Non è tempo di processi. Pensiamo allo spareggio, perché un terzo Mondiale da spettatori avrebbe devastanti ricadute economiche, di immagine e sociali. Poi, sì, sarebbe anche il caso di ragionare di riforme, di riflettere sul perché per la terza volta consecutiva dobbiamo giocarci l’accesso al Mondiale con gli spareggi, perché la Norvegia può permettersi di ribaltarci a Oslo e umiliarci a domicilio, in quel Meazza che, al tramonto della sua gloriosa esistenza, non meritava di ospitare un tale scempio della nostra storia. Ma serve? Ma davvero dobbiamo ripeterci quello che ci diciamo da dieci anni? Niente è cambiato, nessun progetto tecnico ha avuto sostanza (e costanza), nessun investimento serio è stato fatto per valorizzare il talento italiano, anzi ci siamo progressivamente impoveriti economicamente e tecnicamente. Nessun ha fermato l’inesorabile declino, perché tutti sono troppo impegnati a difendere il proprio orticello, a condurre battaglie del grano senza accorgersi che il grano sta finendo.

La politica sportiva è diventata politica tout court, quindi tanta lotta per il potere e poco governo, fotografia mestamente fedele di un Paese in costante campagna elettorale, quindi incapace di varare piani a lunga scadenza o prendere decisioni che non creino un effetto immediato, anche solo di stupore o polemica. Intanto, il calcio italiano ha un cronico problema nella produzione di calciatori di alto livello. Un problema le cui responsabilità vanno divise fra club, leghe e Federazione.

I club in grande maggioranza, nel periodo delle vacche grasse fra gli Anni 90 e la prima decade dei 2000, hanno smesso di curare i settori giovanili, organizzandoli sempre peggio e dedicando sempre meno attenzione agli allenatori e alle strutture: i campioni, tanto, li si poteva comprare già fatti. E se puoi permetterti di ordinare a domicilio ogni sera, è probabile che disimparerai a cucinare o, se non altro, perderai l’abitudine a farlo. Oggi corrono ai ripari, crescono gli investimenti e qualcuno ha ricominciato a produrre, ma si sono persi almeno quindici anni, durante i quali si è aperto un buco che non si richiude rapidamente.

Nella Lega di Serie A hanno pensato quasi esclusivamente ai soldi, ma invece di ragionare su come farne di più, hanno costantemente litigato sul come dividersi quelli che, via via, diminuivano. La spasmodica ansia di vendere il prodotto ha travolto qualsiasi progetto per migliorarlo creando valore, non solo ricchezza. Per dire: la Liga ha un programma di sviluppo dei settori giovanili, con il quale incentiva la costruzione di strutture, vigila che siano produttive, oltre che adatte a far crescere degli uomini non solo dei calciatori, e sulla base alla loro efficienza distribuisce una parte dei soldi dei diritti tv. Noi passiamo intere giornate a litigare su anticipi e posticipi.

© RIPRODUZIONE RISERVATATutte le news di Mondiali 2026

Riforme mai fatte e giovani sempre più lontani dal calcio

La Figc ha parlato per anni di riforma dei campionati, ma nessuno ha mai avuto il coraggio di applicarla, quella riforma, per paura di perdere voti. Così il carrozzone del calcio italiano trascina cento club professionistici e, negli ultimi 25 anni, ne ha visti fallire 185, senza arrendersi all’impossibilità economica di reggere un sistema così strutturato. È una versione distorta della metafora del calabrone che non potrebbe volare, ma non lo sa e vola lo stesso. Cioè: il sistema dei campionati sa benissimo di non potersi reggere, ma continua a fingere di non saperlo nella speranza che gli vada come al calabrone, salvo schiantarsi miseramente ogni anno e ritentare l’anno successivo, senza riforme, ma rimescolando gli uomini: un ct nuovo, una vecchia gloria da sbandierare nel Club Italia e l’annuncio di un grande piano per i giovani, da sottofinanziare fino all’estinzione.

C’è poi un discorso squisitamente tecnico, anzi didattico. Siamo il Paese che continua a sfornare grandi allenatori (siamo arrivati a piazzarne uno sulla panchina del Brasile!), ma non ci curiamo di formare quelli dei settori giovanili. Lì, nel luogo cruciale, dove dovrebbero nascere i futuri nazionali, si trovano, tranne rare e lodevoli eccezioni, aspiranti Guardiola che rovinano i bambini inculcando loro la tattica invece di insegnare la tecnica, che pensano al risultato che può fargli fare carriera e, a questo, sacrificano la selezione, preferendo chi a quattordici anni è più grosso e non più bravo, senza preoccuparsi della crescita dei giovani, ma solo del loro status. In questo sconsolante scenario ci sono sempre meno bambini (natalità negativa) e, tra i pochi che restano, sempre meno sono appassionati di calcio, distratti dalle tentacolari tentazioni digitali, da sport che hanno saputo rendersi più avvincenti o si sono organizzati meglio, a partire dalla presenza nelle scuole (vedi il volley) o nella riorganizzazione dei circoli (vedi il tennis). Ma davvero siete arrivati a leggere fino in fondo senza sbadigliare di noia e consapevoli che non cambiarà nulla? Beh, se lo avete fatto, grazie. Ma ora pensiamo allo spareggio, che è meglio.

 

 

 

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Ora pensiamo ad andare ai Mondiali. Non è tempo di processi. Pensiamo allo spareggio, perché un terzo Mondiale da spettatori avrebbe devastanti ricadute economiche, di immagine e sociali. Poi, sì, sarebbe anche il caso di ragionare di riforme, di riflettere sul perché per la terza volta consecutiva dobbiamo giocarci l’accesso al Mondiale con gli spareggi, perché la Norvegia può permettersi di ribaltarci a Oslo e umiliarci a domicilio, in quel Meazza che, al tramonto della sua gloriosa esistenza, non meritava di ospitare un tale scempio della nostra storia. Ma serve? Ma davvero dobbiamo ripeterci quello che ci diciamo da dieci anni? Niente è cambiato, nessun progetto tecnico ha avuto sostanza (e costanza), nessun investimento serio è stato fatto per valorizzare il talento italiano, anzi ci siamo progressivamente impoveriti economicamente e tecnicamente. Nessun ha fermato l’inesorabile declino, perché tutti sono troppo impegnati a difendere il proprio orticello, a condurre battaglie del grano senza accorgersi che il grano sta finendo.

La politica sportiva è diventata politica tout court, quindi tanta lotta per il potere e poco governo, fotografia mestamente fedele di un Paese in costante campagna elettorale, quindi incapace di varare piani a lunga scadenza o prendere decisioni che non creino un effetto immediato, anche solo di stupore o polemica. Intanto, il calcio italiano ha un cronico problema nella produzione di calciatori di alto livello. Un problema le cui responsabilità vanno divise fra club, leghe e Federazione.

I club in grande maggioranza, nel periodo delle vacche grasse fra gli Anni 90 e la prima decade dei 2000, hanno smesso di curare i settori giovanili, organizzandoli sempre peggio e dedicando sempre meno attenzione agli allenatori e alle strutture: i campioni, tanto, li si poteva comprare già fatti. E se puoi permetterti di ordinare a domicilio ogni sera, è probabile che disimparerai a cucinare o, se non altro, perderai l’abitudine a farlo. Oggi corrono ai ripari, crescono gli investimenti e qualcuno ha ricominciato a produrre, ma si sono persi almeno quindici anni, durante i quali si è aperto un buco che non si richiude rapidamente.

Nella Lega di Serie A hanno pensato quasi esclusivamente ai soldi, ma invece di ragionare su come farne di più, hanno costantemente litigato sul come dividersi quelli che, via via, diminuivano. La spasmodica ansia di vendere il prodotto ha travolto qualsiasi progetto per migliorarlo creando valore, non solo ricchezza. Per dire: la Liga ha un programma di sviluppo dei settori giovanili, con il quale incentiva la costruzione di strutture, vigila che siano produttive, oltre che adatte a far crescere degli uomini non solo dei calciatori, e sulla base alla loro efficienza distribuisce una parte dei soldi dei diritti tv. Noi passiamo intere giornate a litigare su anticipi e posticipi.

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Riforme mai fatte e giovani sempre più lontani dal calcio