TORINO - «Keep calm and... rimontate», come nelle magliette diventate un must estivo nelle loro infinite declinazioni. Quella di moda dalle parti di Corso Galileo Ferraris, all’altezza del civico 32, reciterebbe: «State calmi e... rimontate», perché tra le chiavi del filotto bianconero che ha risollevato e rilanciato le sorti tricolori della Juventus c’è proprio il sangue freddo della dirigenza. E non è stato proprio facilissimo, perché quando ti ritrovi con un punto in tre giornate dopo aver perso con l’Udinese in casa, con la Roma all’Olimpico e non essere andati oltre al pari con il Chievo allo Stadium un filo di nervosismo può serpeggiare in sede. Se poi la situazione tende a peggiorare con una generale confusione in campo, i nuovi e costosissimi acquisti che deludono e le brutte figure che si accumulano fino a portare la squadra a 11 punti di distacco dal primo posto alla decima giornata, sarebbe autorizzato anche il panico. E, intendiamoci, non è che i vertici della Juventus fossero particolarmente rilassati nell’ottobre più nero degli ultimi tempi, ma avevano due certezze a guidarli: la consapevolezza che far trasparire qualsiasi tipo di ansia avrebbe solo contribuito ad aggravare la crisi e la solida convinzione di aver fatto un ottimo mercato, rafforzando la rosa nonostante gli addii pesantissimi di Pirlo, Tevez e Vidal. Da qui la strategia di tenere un profilo bassissimo dal punto di vista mediatico, lasciando trapelare solo fiducia nei confronti di Allegri e della squadra (i giocatori e gli allenatori guardano la tv, ascoltano la radio e leggono i giornali molto più di quanto ammettano, o comunque hanno qualcuno che fa tutte e tre le cose per loro) per evitare che i caratteri meno forti dovessero vacillare. E poi prendere le dovute contromisure, confrontandosi con Allegri e lasciando filtrare qualche consiglio riassumibile in due concetti: basta esperimenti, consolidare la formazione sulle certezze tecniche e tattiche; dare incondizionata fiducia a Dybala. Il tutto senza dare troppo nell’occhio e con l’ovattata perentorietà tipica di un certo savoir-faire sabaudo.
LA FURIA SAGGIA - Questi i fatti, nei quali contano sempre molto le persone. E nel momento critico juventino ha avuto un ruolo chiave Pavel Nedved. Se Andrea Agnelli ha governato il timone silenziosamente, concedendosi solo un colpo di pungolo in occasione dell’Assemblea degli azionisti («La Juventus non può essere al 14° posto») e Beppe Marotta ha coordinato le operazioni dell’unità di crisi, il ceco ha svolto un compito operativo delicato, tenendo insieme la sede e il campo di allenamento, mettendo al servizio della prima la sua visione da giocatore dei problemi della squadra e al servizio della seconda la capacità di trasmettere motivazioni e fiducia provenienti dalla dirigenza. Nel suo pendolare tra il centro di Torino e la periferia di Vinovo, Pavel è stato utile come quando si fiondava da una parte all’altra del campo con il suo indemoniato dinamismo. Pavel ha dialogato a lungo con Allegri, si è confrontato con Buffon e la vecchia guardia, ha parlato come un fratello maggiore con i più giovani, confessandoli, galvanizzandoli e indirizzandoli meglio sulla strada della juventinità. Un lavoro minuzioso e quotidiano, nel quale Pavel si è sempre fatto guidare dalla pragmatica stella polare bianconera del «vincere è l’unica cosa che conta» e dalla convinzione del talento insito nella rosa (Dybala lo fa impazzire), senza mai lasciare spazio alle preoccupazione che, umanamente, sfogava, ma sempre lontano da Vinovo. Uscire dalle crisi, in fondo, è facile, basta saperlo fare...
