Non a caso, chiunque varchi la soglia della Continassa e cominci a imparare il sacro verbo della casa parla della Juve come di una «famiglia». Significa spirito di gruppo, significa volontà massimale di sacrificarsi a maggior ragione nei momenti di difficoltà, quando una stagione rischia di scapparti di mano dinanzi alle prime sconfitte, soprattutto se ripetute in poche settimane. Ai bianconeri è successo esattamente questo: hanno perso a Napoli, hanno ri-perso a Verona due settimane dopo il San Paolo, hanno quasi perso a San Siro contro il Milan in Coppa Italia (e San Cristiano Ronaldo va ringraziato in eterno), hanno ri-ri-perso a Lione in Champions nell’occasione più ghiotta per dimostrare la propria forza in chiave europea. Ma ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria: CR7, il primo a soffrire le mancanze di gol personali e vittorie collettive, s’è posto al vertice dei “protestanti”, di coloro che hanno instillato nel resto della rosa bianconera quel desiderio innato di riprendersi ciò che pareva perduto. Poca fame, poca cattiveria, scarsa concentrazione: era la voce dell’accusa. Altroché: Sarri ha lavorato su mente e corpo dei suoi sottoposti, che hanno ritrovato unità e brillantezza non per diritto divino, ma perché se rappresenti la Juventus devi avere qualcosa di diverso dalla massa e dimostrare il tuo essere altro. E capire che puoi pure godere del privilegio di giocare assieme al più forte calciatore al mondo, ma aiutarsi l’un l’altro è l’incancellabile dogma di un team vincente.