Andrea Lorentini, l'intervista: “Sull’Heysel manca una memoria collettiva”

Il presidente dell’Associazione delle vittime della tragedia di 39 anni fa, figlio di Roberto, morto tentando di salvare un bambino: "C’è ancora tanto bisogno di combattere la violenza. Agli studenti parlo di Giuseppina: era come loro, il giorno che sognava divenne l’ultimo"
Andrea Lorentini, l'intervista: “Sull’Heysel manca una memoria collettiva”

Andrea Lorentini aveva tre anni, e suo fratello uno e mezzo, quando suo papà Roberto è morto all’Heysel. Di lui non ha ricordi diretti, ma solo ciò che il nonno, la mamma, i parenti e gli amici gli hanno raccontato. «Il mio babbo era un medico, il giorno prima della tragedia aveva ricevuto la lettera di assunzione in ospedale. Tifava Juve, ma non era un ultras, l’anno prima era andato a Basilea per la finale di Coppa delle Coppe, decise di ripetere l’esperienza anche a Bruxelles con nonno Otello, tifoso viola, e due cugini. Proprio mio nonno, crescendo, ci ha spiegato quello che è successo: papà era riuscito a mettersi in salvo, poi ha visto un bambino, Andrea Casula, in difficoltà, è tornato a prestargli soccorso, gli stava praticando la respirazione bocca a bocca quando entrambi sono stati travolti da una nuova carica. Li hanno trovati insieme».

Andrea, come si sente quando si avvicina il 29 maggio?

«Mio padre è vivo nei nostri ricordi tutto l’anno, in vari momenti della nostra vita, però quando si avvicina questa ricorrenza cresce la malinconia e la tristezza, riapre una ferita che non si rimargina: a volte brucia meno, a volte di più. Se non ci fosse stata questa tragedia la nostra vita con mio padre poteva essere differente, non avremmo vissuto questo dolore».

Come vorrebbe che fosse ricordato suo papà?

«Per il suo gesto di grande altruismo che gli è valso anche una medaglia d’argento al valore civile. E’ stato un esempio, un punto di riferimento, morto aiutando gli altri e io sono orgoglioso di ciò che ha fatto».

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"Heysel, l'Associazione e il processo a Bruxelles"

Lei ha raccolto l’eredità di suo nonno Otello nel tenere viva l’Associazione vittime dell’Heysel, di cui è presidente.

«E vicepresidente è Emanuela Casula, la sorella di quel bambino che mio papà ha cercato di soccorrere... Con l’impegno dell’Associazione cerchiamo di dare un senso a quelle morti perché è assurdo morire per una partita di pallone. Così, oltre alla memoria e alla parte commemorativa, cerchiamo di sviluppare progetti di educazione civica sportiva, per educare i giovani, far capire che lo sport è altro. Infatti domani (oggi) sarò al Museo di Coverciano e racconterò a una scuola in visita quello che è stato l’Heysel».

Suo nonno riuscì a ottenere giustizia nel processo a Bruxelles.

«Quel processo ha fatto giurisprudenza perché l’Uefa è stata condannata. Ci sono voluti i tre i gradi di giudizio ma alla fine, oltre alle autorità belghe e ad alcuni tifosi del Liverpool, quelli che sono riusciti a individuare perché a quei tempi non c’era un sistema di telecamere, anche l’Uefa è stata riconosciuta colpevole. Prima dell’Heysel non era responsabile degli eventi che organizzava, da allora lo è e per questo motivo ha introdotto una serie di parametri, tra cui la sicurezza, nella scelta degli stadi dove disputare gli eventi. Il merito va a mio nonno che con l’Associazione si è costituito parte civile e non ha mollato di un centimetro: qualche volta l’ho accompagnato anch’io alle udienze. Se l’Uefa fosse stata responsabile già allora, mai avrebbe scelto quello stadio, così vetusto e inadatto a ospitare una finale, a cui si è aggiunta la negligenza dell’ordine pubblico che ha permesso agli hooligans di dettare legge».

Che cosa prova quando sente i cori beceri e offensivi di frange di tifoserie italiane sull’Heysel?

«Uno dei motivi per i quali ho scelto di ricostruire l’associazione è proprio combattere questo tipo di inciviltà. Non si tratta di una tragedia juventina, bensì italiana ed europea. È una tragedia di tutti: questo è il messaggio che la nostra associazione cerca di veicolare. Io posso capire gli sfottò, le rivalità storiche, fanno parte del tifo, ma i cori o gli striscioni in alcune curve con la scritta -39 no: bisogna avere rispetto e non offendere persone che sono morte. Eppoi non tutti erano juventini».

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"Violenza, c'è molto da lavorare"

Ha visto in questi anni dei miglioramenti nella lotta alla violenza negli stadi?

«C’è ancora molto da lavorare, vediamo ancora troppi episodi di violenza anche verbale, a qualsiasi livello. Nelle curve assistiamo alle scene di genitori che fanno cori beceri e il figlio che li emula, prendendoli da esempio senza rendersi conto. Un altro problema legato all’Heysel è la mancanza di una memoria condivisa e collettiva: tanti adolescenti non sanno, forse chi tifa Juventus conosce un po’ la storia della tragedia, gli altri ragazzi alzano magari uno striscione senza neppure sapere a che cosa si riferisce. Bisogna ricordare e far conoscere per evitare che si ripeta».

Lei ha un progetto ambizioso, che porta avanti da parecchi anni: istituzionalizzare una giornata nazionale contro la violenza nello sport.

«Sto tentando, ho avuto approcci con vari governi, sottosegretari allo Sport, ministri, la burocrazia poi non aiuta. Adesso sembra che ci sia una proposta di legge di iniziativa parlamentare e che possa arrivare in commissione. Sarebbe un modo per rendere omaggio a tutti quelli che hanno perso la vita per lo sport: l’Heysel con 39 morti e 600 feriti è una tragedia che fa parte della storia dell’Italia e ha una risonanza maggiore, ma ci sono tanti altri morti che vanno ricordati».

Qual è la reazione dei ragazzi ai suoi racconti?

«Dipende dall’età, noi andiamo nelle medie e alle superiori, sono ragazzi dagli 11 ai 15 anni che devono ancora formarsi. Sono molto attenti quando si racconta, magari non conoscono la gravità di quei fatti e allora io porto l’esempio di Giuseppina Conti, di Arezzo, anche lei vittima dell’Heysel: aveva 17 anni, era tifosissima della Juve, aveva preso una buona pagelle al Classico e il papà come premio la portò alla finale. Dico ai ragazzi che era uno di loro, che il giorno più bello della sua vita si è trasformato in quello della sua morte. Devo dire che ha un forte impatto emotivo e li costringe a riflettere».

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Andrea Lorentini aveva tre anni, e suo fratello uno e mezzo, quando suo papà Roberto è morto all’Heysel. Di lui non ha ricordi diretti, ma solo ciò che il nonno, la mamma, i parenti e gli amici gli hanno raccontato. «Il mio babbo era un medico, il giorno prima della tragedia aveva ricevuto la lettera di assunzione in ospedale. Tifava Juve, ma non era un ultras, l’anno prima era andato a Basilea per la finale di Coppa delle Coppe, decise di ripetere l’esperienza anche a Bruxelles con nonno Otello, tifoso viola, e due cugini. Proprio mio nonno, crescendo, ci ha spiegato quello che è successo: papà era riuscito a mettersi in salvo, poi ha visto un bambino, Andrea Casula, in difficoltà, è tornato a prestargli soccorso, gli stava praticando la respirazione bocca a bocca quando entrambi sono stati travolti da una nuova carica. Li hanno trovati insieme».

Andrea, come si sente quando si avvicina il 29 maggio?

«Mio padre è vivo nei nostri ricordi tutto l’anno, in vari momenti della nostra vita, però quando si avvicina questa ricorrenza cresce la malinconia e la tristezza, riapre una ferita che non si rimargina: a volte brucia meno, a volte di più. Se non ci fosse stata questa tragedia la nostra vita con mio padre poteva essere differente, non avremmo vissuto questo dolore».

Come vorrebbe che fosse ricordato suo papà?

«Per il suo gesto di grande altruismo che gli è valso anche una medaglia d’argento al valore civile. E’ stato un esempio, un punto di riferimento, morto aiutando gli altri e io sono orgoglioso di ciò che ha fatto».

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