TORINO - Appena due settimane dopo l'esonero, Thiago Motta parla. Una lunga intervista concessa a Walter Veltroni per il Corriere della Sera, nella quale esprime tutta la sua delusione. Poco altro. Per quanto elegante e ben articolata, Motta è persona colta e intelligente, si tratta della solita litania dell'allenatore esonerato: serviva tempo, era un progetto più lungo ma non ho potuto lavorare, la squadra era con me, avevo la fiducia della società ma poi hanno pesato i risultati... Insomma, separati dalla sempre godibilissima scrittura di VeltronI e del suo garbo da intervistatore, i concetti di Motta non si scostano da quelli che esprime qualunque tecnico mandato via prima del tempo, che sedesse sulla panchina del Real o di una modesta Serie C. Questo forse perché il calcio è semplice o, più probabilmente, perché quasi mai si può dire la verità.

Lo spogliatoio
Motta dice cose di buon senso, si aggrappa, senza esagerare, agli infortuni (che effettivamente sono stati tanti) e sottolinea con vigore il fatto che lo spogliatoio non era contro di lui. E ha ragione a recriminare su questo punto, e infatti è sempre stato scarsamente battuto nella narrativa sul suo esonero. Il problema dei suoi rapporti con i giocatori, infatti, erano più che altro di comprensione reciproca. Lo spogliatoio non capiva le sue scelte, non comprendeva la ratio delle rotazioni furiose che hanno centrifugato l'equilibrio di alcuni singoli, alcuni dei quali messi in difficoltà anche dai cambi di ruoli e posizione. La squadra non era contro di lui, era confusa. Anche dalla sua comunicazione pubblica, sempre un po' criptica e, talvolta, spiazzante. Un esempio? Quando, dopo l'eliminazione contro il Psv, Locatelli fa una onesta e sacrosanta autocritica, Motta lo contraddice difendendo l'indifendibile. Motta non aveva nemici e non ha lasciato rancore, ma smarrimento (molto evidente in campo, tra l'altro).