Perché siamo arrivato a questo punto, secondo lei?
«La situazione è figlia di un sindacato che in modo eccessivamente conveniente per la categoria ha cercato di ottenere tutti i vantaggi, a discapito dei club, che non ne hanno e hanno solo doveri. Il calcio è complicato perché non ci sono interessi allineati, ognuno lavora per i propri interessi, a partire dai calciatori. A parte quelli che giocano nei dieci top europei, tutti sognano di andare in squadre migliori e guadagnare di più. Così, dopo tre partite andate bene, vogliono più soldi o andare via, viceversa se le sbagliano non è mai colpa loro, ma, tuttalpiù del tecnico o dei compagni di squadra. Devono capire che sono superatleti e che devono dimostrare attaccamento o professionalità alla squadra. Invece sembrano geneticamente modificati a seguire i loro interessi, condizionati da agenti e famigliari assortiti».
Secondo lei ai calciatori non manca un po’ di formazione?
«È un argomento che mi preme perché mi sono occupato di formazione fino meno di tre anni fa e ha rappresentato il più grande impegno della mia vita. Lo studio può avvenire in modo formale o in ambienti informali o non formali, per esempio partecipando a convegni attività, eventi, con la creazione di gruppi di studio, con la lettura di un giornale... insomma, non è necessario imbrigliare i calciatori in un percorso didattico classico, ma effettivamente consentire loro di imparare a decodificare gli eventi economici, sociali e politici che li circondano, uscendo dalla bolla in cui a volte si intrappolano. Poi, nel post carriera, credo che debbano avere la possibilità di riprendere gli studi».
Tornando alle riforme, chi è che in Italia non le vuole?
«Non c’è un blocco specifico di alcuni presidenti, manager o società. C’è una melassa di competenza, non si riesce a capire chi le deve fare queste benedette riforma e in che modo: la Figc? La Lega? Tutte e due. E così il meccanismo si inceppa».