Toro, parla Lentini: "Juric, sembri Mondonico"

L'ex ala granata: "È bello tifare per questa squadra: attacca anche le grandi, diverte. E come noi punta sempre la porta. Io, Radonjic, Vlasic: così gli allenatori ti liberano l’estro"
Toro, parla Lentini: "Juric, sembri Mondonico"© Marco Canoniero

«Io amavo puntare sempre l’uomo. Ma anche la donna». E così Lentini si apre in un sorriso, microfono in mano. E la sala scoppia in una risata. Poco dopo, invece, nel milionesimo applauso: quando vengono proiettate le immagini del 2 a 0 al Real. Scappò in fuga sulla fascia, dopo che già aveva ispirato l’autorete dell’1 a 0, e fu tranciato in area, però rimase in piedi: «Mica mi chiamo Neymar. Se proprio non mi tiravano giù di brutto, io cercavo sempre di andare avanti, per un fatto di istinto. Mi faceva godere di più». Scartare, resistere alla scivolata di un avversario che si era gettato alla disperata, andare ancora oltre, quindi alzare la testa per scorgere un compagno e fargli spingere il pallone in porta. Quella volta di 30 anni fa, sino all’assist per Fusi.

Siamo a Valfenera, là dove la provincia di Asti comincia a guardare negli occhi quella di Torino. La sera è ormai scesa e Lentini è qui da metà pomeriggio. Con la figlia di Mondonico, Clara, ha inaugurato la mostra organizzata dal Toro Club locale dedicata a Emiliano: «E io per lui ci sono sempre. Lo consideravo un padre». Tra il taglio del nastro e i discorsi Gigi si mette a guardare le fotografie dell’allenatore che lo fece decollare come nessun altro. Osserva anche le tante pagine storiche di giornale, si mette a rileggere gli articoli, non si ferma ai titoli. Clara è vicina, rievocano, i commenti oscillano tra ricordi così vivi che sembrano di ieri. Gigi dimostra un cuore semplicemente grande, per come si apre quando c’è da promuovere l’associazione benefica creata da Clara in memoria del padre o allorché si ritrova in mezzo ai tifosi che lo guardano e lo toccano anche per rivedere loro stessi, com’erano 30 prima. E quindi rivivere a fiammate nei ricordi del Delle Alpi pieno, del terzo posto, della finale Uefa, dei derby vinti passando sopra alla Juve. E infine della Coppa Italia al cielo, ma a quel punto Gigi era già da un anno al Milan. Siamo davanti ai giornali del 1992, al resoconto di Amsterdam, due pali, una traversa allo scadere. Gigi si gira, ti guarda, allunga il pollice e l’indice, chiude le altre dita, disegna un piccolo spazio nell’aria: «Sarebbe bastato che la palla avesse picchiato contro la traversa anche solo 2 o 3 centimetri più sotto e sarebbe entrata. Invece prese la parte bassa e tornò in campo. E lì cambiò tutta la storia».

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In 5 ore e passa a Valfenera lo sommergono di domande, pure di richiami all’attualità. Lo facciamo anche noi, parlandogli di Juric, di come tanti suoi ex compagni abbiano già testimoniato «una somiglianza col Mondo». A Lentini non piacciono i paragoni, ma comprende il senso: la forza delle evocazioni, pur senza confronti impossibili. «Sembrava che il Mondo conoscesse solo il mio nome, in campo pareva che urlasse solo a me, che ci fossi solo io da sgridare. E io gli rispondevo, anche in allenamento. Però senza mai mancargli di rispetto. E finiva sempre tutto dopo neanche un minuto. Si creavano delle dinamiche tra noi davvero come un padre con un figlio. Mi stuzzicava, lo faceva apposta. Per farmi dare sempre di più. Non gli bastava mai: anche quando giocavo bene, anche dopo uno slalom perfetto e un assist gol». Sono i comportamenti di Juric con i suoi, e pensiamo in particolar modo a come arroventa di urla gente come Vlasic, Radonjic: slalomisti dell’estro anche loro. «Sono i metodi che usava il Mondo per caricarmi, mi martellava di continuo. Anche a me piacciono Vlasic e Radonjic. Hanno tecnica, gamba, dribbling di classe. Magari in qualche momento allenatori così ti fanno persino incazzare in campo, ti sembra che ce l’abbiano solo con te. Ci mandavamo spesso a quel paese, in effetti»: esattamente come può accadere nel Toro di oggi. «Ma così tiri fuori il doppio della grinta, non ti siedi mai, pensi sempre di dover dimostrare qualcosa, ti viene voglia di fargliela vedere prima di tutto a lui in panchina. Il Mondo era bravissimo a far rendere i giocatori, con ognuno aveva un metodo differente a seconda dei nostri caratteri. La mia gratitudine è infinita». E «anche questo Toro, come il nostro, vive di assalti alla garibaldina, non di titìc e titòc. Il gioco che piace a me, puntare l’uomo, guardare in faccia la porta avversaria, volare in fuga, scartare. Questo Toro è bello da vedere, da tifare: io lo faccio davanti alla tv, lo farò contro il Napoli e già un po’ penso anche al derby. La squadra di Juric aggredisce tutti, anche le grandi, anche se come rosa è meno attrezzato. Gioca bene, le mette in difficoltà, senza paura. Peccato per la sconfitta col Sassuolo, ma c’è ancora tempo per far bene e ambire a qualcosa di importante in classifica. Tra l’altro anche noi attaccavamo molto con giocatori di estro sulle fasce, io, Rafa... Poi, qualche anno fa, il Mondo cominciò a dire nelle interviste: non ho mai allenato un talento con le potenzialità di Lentini. Non me l’aspettavo. Tutte le volte che penso a lui gli dico grazie. Mi mise in riga, ero anche un po’ un cazzone e mi fece diventare un giocatore di altissimo livello». Quindi si gira di nuovo nel tempo. E ricomincia a leggere i lampi della sua giovinezza, in quegli articoli di 30 anni fa.

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