Gianni Minà, il Toro e quell'appello a Cairo: "Decimo posto? Osi di più"

L’invocazione di 5 anni fa così attuale anche oggi: "Se vola l’Atalanta, perché il club granata no? La metà classifica ha poco senso per noi"
Gianni Minà, il Toro e quell'appello a Cairo: "Decimo posto? Osi di più"© ANSA

TORINO - L'altro giorno, qui in redazione, stavamo rammentando in quattro o cinque tutte “quelle volte che con Gianni Minà”, quando il collega Andrea Pavan ci raggiunse alla macchinetta del caffé. Si parlava anche del Toro e così ci ritrovammo tutti all’improvviso proiettati di nuovo in un giorno di maggio del 2017, per la precisione il 25. «Ve lo ricordate all’inaugurazione del Filadelfia? Era proprio felice, si guardava attorno come un bambino al luna park». Vero. In mezzo ai tifosi, gli occhi guizzavano come sempre di qua e di là, la curiosità gli gonfiava le guance, il cuore era già pieno di suo di emozione, le mani stringevano migliaia di mani e un sorriso stampato sotto i baffi era il sigillo di un incanto che Gianni si portò appresso durante la cerimonia, insieme con la maglietta che indossava, rigorosamente granata. L’abbraccio con noi cronisti di Tuttosport, conosciuti oltre vent’anni prima durante la sua direzione del giornale, era stato sicuramente vigoroso: così la memoria ci detta di scrivere, adesso. Siamo andati a rileggerci un suo commento di quel giorno: «Mi sembra una magia, il Fila è rinato. La mia fede granata è sorta su questa terra. Mi portava qui mio padre, ero un bambino. Me e mio fratello. E così diventai per sempre del Toro. Quando il Grande Torino morì avevo 10 anni, quasi 11. Fin da piccolino il Toro era diventata la squadra del mio cuore. Subito, voglio dire».

Minà su Cairo

Un anno dopo, nel 2018, rilasciò un’intervista a “Stile Toro” e ripartì proprio da lì, dal Grande Torino: «Nel dopoguerra, con l’Italia che tentava di riemergere dalle macerie, il popolo aveva bisogno di un riferimento sportivo, di avere degli idoli. Lo era il Grande Torino e lo era Fausto Coppi». Rivide davanti agli occhi due derby, sempre con il papà al fianco: «Uno lo vincemmo con un gol di Castigliano, l’altro con una rete di Gabetto. Non era stata la squadra della Fiat a vincere… Per me è stato facile innamorarmi del Torino. I campionati vinti di fila... Eppure la Juve c’era, eccome… Ricordo bene quei tempi, andavamo a giocare in Piazza d’Armi, a due passi dal Comunale. Vivevamo nelle case popolari di via Quattro Novembre angolocorso Orbassano, frequentavamo l’oratorio salesiano di via Piazzi». E quando tornarono a chiedergli un’opinione sulla presidenza Cairo, rispose così: «Se non fosse arrivato lui, forse saremmo scomparsi totalmente dal calcio italiano. Oggi siamo una società senza debiti e abbiamo raggiunto qualche exploit, come quando sbancammo il campo dell’Athletic Bilbao. Ma io penso che il Toro meriti uno dei primi cinque, sei posti del campionato. C’è riuscita l’Atalanta, non certo una società più ricca della nostra. Prendere il Torino per arrivare decimi in classifica ha poco senso. Quindi a Cairo faccio un appello: osi di più». E l’attualità di questa invocazione risuona ancor oggi, scolpita nei fatti. Nelle parole, nelle opere e nelle omissioni.

"Ditemi tutto sul Toro"

Lui, cantore, che sul Toro in vita sua aveva scritto fiumi di righe magistrali su Tuttosport, negli anni Sessanta da giornalista agli inizi della carriera e nella seconda metà dei Novanta da direttore, ancora tre anni fa si era ritrovato in mezzo a un nostro dibattito in libertà qui in redazione: l’ultima sua visita. Attorno a Gianni si formò presto un crocchio di spiriti granata, giornalisti non più «giovani virgulti», come ci chiamava da direttore un quarto di secolo prima, fin paternamente. Ci sorrise a un uno a uno, poi diventò improvvisamente serio: «Ditemi tutto del Toro, voi che lo seguite tutti i giorni. Cosa c’è esattamente che non va?». Proprio lui, Minà, che chiedeva a noi le notizie. A turno, provammo a soddisfare la sua fame granata ricoprendolo di parole. «Ma com’era felice quel giorno al Fila. Pareva un bambino».

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