Il Toro di oggi e il torpedone della vergogna: la foresta di Cairo è un deserto

Basta il fatto che sia successo, che sia stato anche solo pensato, per riassumere il senso di cosa sia diventato il club granata

Molti tifosi del Toro pensano, per buona fede ed educazione, che Superga non sia posto indicato per le contestazioni, in quanto suolo sacro dove dovrebbero regnare silenzio e raccoglimento o comunque rispettosa compostezza; insomma, lì, a pochi passi dal muro del pianto granata, ci si deve comportare a modo. In compenso qualche giocatore, di quelli che loro incredibilmente ancora riescono ad applaudire, a sostenere «solo per la maglia», a sopportare, li può definire «pezzi di merda». Protetto dai vetri rinforzati di un pullman ma non dalla propria dabbenaggine: e dire che passano gran parte del loro tempo a spippolare con gli smartphone, e dovrebbero sapere come funzionano. Quegli aggeggi che sono divenuti la loro porta sul mondo, forse la loro idea di mondo, registrano, diffondono, amplificano. In qualche modo, stavolta, denunciano.

La denuncia dei tifosi

Denunciano l’insofferenza per quattro fischi in croce, dopo l’ennesima stagione penosa, che solo ai cultori del decimo posto e delle parti sinistre della classifica – obiettivi mai esistiti né tantomeno dichiarati, prima dell’avvento di Cairo che invece li ha istituzionalizzati – può risultare soddisfacente. Denunciano la mancanza di un rispetto che evidentemente nessuno ha saputo loro trasmettere, inculcare, insegnare: in primis, con testimonianze personali, condotte coerenti. Denunciano la carenza di valori non più coltivati. È perfino superfluo sapere chi è stato, se e cos’altro possano aver detto su quel torpedone della vergogna. Basta il fatto che sia successo, che sia stato anche solo pensato, per riassumere il senso di cosa sia diventato il Torino Fc. Incapace di vigilare perfino su una roba del genere. Sarebbe bastato pure un bidello in piedi tra le file a dire: ragazzi, mi raccomando, via i telefonini, siate seri, i tifosi guardateli in faccia, sono qui per voi, eredi in qualche modo di quelli là, che a differenza vostra vincevano tutto e sono morti 75 anni fa.

Kabic e quei palleggi in mezzo al campo

Il ragazzino serbo Kabic che si mette a palleggiare in mezzo al campo mentre nel silenzio dello stadio si levano struggenti note e parole di “Quel giorno di pioggia”, la canzone per il Grande Torino composta dai Sensounico, è un’altra faccia della stessa medaglia. Ma cosa vuoi che ne sappia, Kabic. Lo ha mai visto, il Filadelfia vero? Lo ha mai visitato, il Museo della Memoria che dei volontari portano avanti in una villa di periferia mentre Cairo dice a quelli della Fondazione di pagarselo loro perché hanno «un sacco di soldi»? Gli hanno mai fatto vedere i colori e sentire il rumore della Curva Maratona quando si riempiva nel vecchio Comunale o al Delle Alpi? Hanno mai fatto conoscere, a lui ragazzetto come ai suoi compagni titolari o più titolati, qualche campione d’Italia del 1976, 27 anni dopo Superga? Cosa aveva significato per loro, cosa avevano vissuto, cosa gli è rimasto dentro e perché? Gli avranno mai raccontato di Radice e di Ferrini, di Junior e di Dossena, di Mondonico e di Lentini?

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Il Torino di oggi

In compenso, hanno visto il loro allenatore fare il dito medio al pubblico dopo aver strappato un’entusiasmante vittoria di misura sul Sassuolo. Lo hanno sentito parlare di tifosi «complessi», che non capiscono lo spirito Toro che c’è in un recupero palla di Zapata, che non si arrapano per dei clean sheet senza tiri in porta. Lo hanno visto azzuffarsi in pubblico con il direttore tecnico, con insulti reciproci e per conto terzi, per poi andare avanti tutto va ben madama la marchesa. Su questa sorta di tacito e nobile patto di evitare contestazioni a Superga, va da sé, da troppi anni i sodali e i dipendenti di Cairo marciano, facendo opera di prevenzione in senso lato, consapevoli che la repressione del dissenso in ogni altro luogo lo ha ridotto ai minimi termini, se non a zero, utilizzando e combinando tra loro – a vari livelli – tutta una serie di strumenti.

Cairo e il deserto di valori

Insomma: se risolvi il “problema” di Superga - una delle poche occasioni in cui i giocatori e i societari sono obbligati a sfilare all’aperto davanti alla gente, ora che allo stadio se fai entrare uno striscione storto ti becchi un daspo, ora che il Filadelfia è diventato un bunker privato e inaccessibile, ora che i calciatori li vedi se va bene dietro il finestrino di un’auto o scortati quando vanno in giro per qualche marchetta promozionale - il gioco è fatto. La contestazione è disarticolata. Aggiungici una ahinoi diffusa deferenza mediatica nei riguardi dell’editore e alé: Cairo riesce persino a sostenere, con incredibile faccia tosta e senza contraddittorio, che sono più quelli che gli dicono di non mollare di quelli che gli urlano di andarsene. Peccato che i primi li senta sempre e solo lui, o se li legga tra i commenti sui suoi profili social dove banna chi lo critica, mentre per non sentire gli altri ti devi tappare le orecchie. Perfino lungo il cortile che conduce alla Basilica, a ‘sto giro, alcuni epiteti rabbiosi si sono levati, fino a diventare un coro di “vattene”. Dice che il 75 per cento dei granata sta dalla sua parte, Cairo. Paradosso allucinante - per usare un aggettivo caro a Juric, ma in questo caso appropriato – considerato come da tempo l’insofferenza, l’avversione, il fastidio nella tifoseria per il presidente/proprietario e ogni sua emanazione abbia ormai raggiunto proporzioni e picchi tali da rendere il web granata un contenitore di insulti senza precedenti né paragoni. «Fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce»: citazione più inadeguata, metafora più stonata rispetto a quanto da lui creato e gestito, Cairo non avrebbe potuto scegliere. Il suo Torino di foresta non ha niente: è un deserto, gli alberi del sentire granata sono stati segati, o quantomeno mai annaffiati. E i germogli di speranza insistono a reciderli.

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Molti tifosi del Toro pensano, per buona fede ed educazione, che Superga non sia posto indicato per le contestazioni, in quanto suolo sacro dove dovrebbero regnare silenzio e raccoglimento o comunque rispettosa compostezza; insomma, lì, a pochi passi dal muro del pianto granata, ci si deve comportare a modo. In compenso qualche giocatore, di quelli che loro incredibilmente ancora riescono ad applaudire, a sostenere «solo per la maglia», a sopportare, li può definire «pezzi di merda». Protetto dai vetri rinforzati di un pullman ma non dalla propria dabbenaggine: e dire che passano gran parte del loro tempo a spippolare con gli smartphone, e dovrebbero sapere come funzionano. Quegli aggeggi che sono divenuti la loro porta sul mondo, forse la loro idea di mondo, registrano, diffondono, amplificano. In qualche modo, stavolta, denunciano.

La denuncia dei tifosi

Denunciano l’insofferenza per quattro fischi in croce, dopo l’ennesima stagione penosa, che solo ai cultori del decimo posto e delle parti sinistre della classifica – obiettivi mai esistiti né tantomeno dichiarati, prima dell’avvento di Cairo che invece li ha istituzionalizzati – può risultare soddisfacente. Denunciano la mancanza di un rispetto che evidentemente nessuno ha saputo loro trasmettere, inculcare, insegnare: in primis, con testimonianze personali, condotte coerenti. Denunciano la carenza di valori non più coltivati. È perfino superfluo sapere chi è stato, se e cos’altro possano aver detto su quel torpedone della vergogna. Basta il fatto che sia successo, che sia stato anche solo pensato, per riassumere il senso di cosa sia diventato il Torino Fc. Incapace di vigilare perfino su una roba del genere. Sarebbe bastato pure un bidello in piedi tra le file a dire: ragazzi, mi raccomando, via i telefonini, siate seri, i tifosi guardateli in faccia, sono qui per voi, eredi in qualche modo di quelli là, che a differenza vostra vincevano tutto e sono morti 75 anni fa.

Kabic e quei palleggi in mezzo al campo

Il ragazzino serbo Kabic che si mette a palleggiare in mezzo al campo mentre nel silenzio dello stadio si levano struggenti note e parole di “Quel giorno di pioggia”, la canzone per il Grande Torino composta dai Sensounico, è un’altra faccia della stessa medaglia. Ma cosa vuoi che ne sappia, Kabic. Lo ha mai visto, il Filadelfia vero? Lo ha mai visitato, il Museo della Memoria che dei volontari portano avanti in una villa di periferia mentre Cairo dice a quelli della Fondazione di pagarselo loro perché hanno «un sacco di soldi»? Gli hanno mai fatto vedere i colori e sentire il rumore della Curva Maratona quando si riempiva nel vecchio Comunale o al Delle Alpi? Hanno mai fatto conoscere, a lui ragazzetto come ai suoi compagni titolari o più titolati, qualche campione d’Italia del 1976, 27 anni dopo Superga? Cosa aveva significato per loro, cosa avevano vissuto, cosa gli è rimasto dentro e perché? Gli avranno mai raccontato di Radice e di Ferrini, di Junior e di Dossena, di Mondonico e di Lentini?

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