Sinner e il retroscena rivelato da Marcora: "Aveva 14 anni e Piatti mi disse..."

Intervista al tennista contro il quale il campione degli Australian Open vinse il primo torneo: “È speciale, unico. Più forte di Alcaraz. Lo capii non solo perché mi travolse. Sarà numero 1”

C’era e non aveva un ruolo secondario dove tutto è cominciato, a Bergamo nel febbraio 2019, quando Jannik Sinner conquistò il suo primo titolo Challenger. Roberto Marcora era l’avversario in finale di quel ragazzo magro e con le lentiggini, dalla zazzera di capelli rossi, in gara con una wild card (era numero 546 Atp dopo alcuni buoni risultati nei tornei Futures Itf) ma capace di alzare un trofeo di questo circuito a soli 17 anni e sei mesi. Si può dire insomma che il giocatore nato a Busto Arsizio il 30 agosto 1989 e ritiratosi nella primavera scorsa dopo aver raggiunto come best ranking il 150° posto mondiale (a novembre si è comunque laureato campione italiano in doppio di pickleball), ha tenuto a battesimo un campione destinato ad entrare nella storia sportiva del nostro Paese.

Marcora, che ricordi ha di quel match?

«Di solito un tennista non parla volentieri delle sconfitte, però questa è un’eccezione. Ricordo che, pur stanco dopo una semifinale lunga e faticosa, un pensierino al mio primo titolo Challenger l'avevo fatto. Speravo che l'emozione della prima volta giocasse brutti scherzi a Jannik e magari sentisse un po’ di pressione, invece non c'è stata storia. Fin dai primi game ha impostato il suo gioco molto aggressivo, velocità di crociera molto più alta di qualsiasi altro giocatore che avevo incontrato. Io in apnea, lui con le idee chiarissime: finì 6-3 6-1. Il palazzetto era stracolmo, tremila persone all’interno e anche tanta gente rimasta fuori. Ancor più della tecnica, mi colpirono la sua maturità e la gestione dei momenti. Ci siamo accorti di vivere un giorno speciale».

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Le parole di Marcora su Jannik Sinner

Non era però la prima volta che le vostre strade si incrociavano…

«Vero, l'avevo conosciuto quando aveva 14 anni, all'isola d'Elba dove ero andato ad allenarmi col mio coach Uros Vico per preparare la trasferta americana sul cemento. Riccardo Piatti un giorno mi fa: “Vieni oggi pomeriggio, ti faccio palleggiare con un ragazzino che tra qualche anno te ne farà far pochi”. Si è rivelato profetico. A fine 2019, poi, me lo sono ritrovato di fronte al secondo turno del Challenger di Ortisei, praticamente casa sua. In pochi mesi Jannik era già entrato tra i primi 100 del mondo, ulteriormente cresciuto anche sul piano della consapevolezza. E fu un’altra sconfitta netta per me».

Domenica ha seguito la finale degli Australian Open?

«Ero all’estero per degli impegni e sono riuscito a vedere solo il quinto set. È stata davvero una forte emozione, ma confesso non inaspettata: è da un po’ che lo ritengo pronto per la conquista di uno Slam. Era sotto di due set, nella prima finale di un Major, eppure ha avuto la tenacia e forza mentale di attendere il calo di Medvedev, senza disunirsi. Non a caso gli ho scritto: “Il bello deve ancora venire”. Messaggio a cui Sinner ha risposto con splendide parole e ricordi che confermano una volta di più quanto sia fuori dal comune anche come persona, non solo come atleta. Basti ricordare che dopo aver vinto quel Challenger a Bergamo prese il treno per andare a disputare un Future a Trento, superando in 3 set all’esordio il francese Olivetti e poi arrivando in fondo anche in quel torneo. Sono questi gli aspetti che differenziano un campione da un buon giocatore».

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Marcora su Sinner futuro numero 1 al mondo

Sinner è come si vede in tv?

«In passato ho avuto la fortuna di lavorare pure io con Simone Vagnozzi e con il preparatore atletico Umberto Ferrara: sono i migliori nel loro campo. Quando Sinner dopo aver lasciato Piatti ha scelto Vagnozzi, tanti hanno espresso perplessità e invece Simone, che conosce il tennis, lo capisce e ha grandissima passione, ha saputo arricchire il tennis dell’azzurro. E in più c’è un Darren Cahill a supervisionare come un direttore d’orchestra. È una bravura non da poco anche il sapersi circondare dalle persone giuste. Jannik è un ragazzo genuino, molto posato ed educato. Non è la persona che si fa travolgere dal successo, persino il Papa ha parlato di lui ma nella sua determinazione incredibile sta pensando a come migliorare ricordando i primi due set persi in finale».

Potrà arrivare al n.1?

«Ne sono praticamente certo e lo avrei detto anche se non avesse trionfato in Australia. Come già accaduto a Federer e Nadal, pure Djokovic deve fare i conti con l’età e in questo momento non vedo in circolazione tennisti sopra Jannik, per me più forte anche di Alcaraz. Per il trono è solo questione di tempo».

E Marcora, appesa la racchetta al chiodo, cosa fa ora?

«Avevo detto basta a gennaio 2022 per la delusione di aver dovuto rinunciare agli Australian Open per la positività al Covid pochi giorni prima, poi ho pensato fosse una decisione troppo drastica e a giugno sono tornato per giocare un’ultima volta i miei tornei preferiti, cioè US Open, Australian Open e Indian Wells, dove a marzo 2023 ho salutato il tour. Dopo il ritiro sono entrato nell’azienda siderurgica di famiglia, nel settore dell’acciaio laminato. Sto imparando a muovermi in un mondo diverso, ma che rappresenta un’altra sfida».

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C’era e non aveva un ruolo secondario dove tutto è cominciato, a Bergamo nel febbraio 2019, quando Jannik Sinner conquistò il suo primo titolo Challenger. Roberto Marcora era l’avversario in finale di quel ragazzo magro e con le lentiggini, dalla zazzera di capelli rossi, in gara con una wild card (era numero 546 Atp dopo alcuni buoni risultati nei tornei Futures Itf) ma capace di alzare un trofeo di questo circuito a soli 17 anni e sei mesi. Si può dire insomma che il giocatore nato a Busto Arsizio il 30 agosto 1989 e ritiratosi nella primavera scorsa dopo aver raggiunto come best ranking il 150° posto mondiale (a novembre si è comunque laureato campione italiano in doppio di pickleball), ha tenuto a battesimo un campione destinato ad entrare nella storia sportiva del nostro Paese.

Marcora, che ricordi ha di quel match?

«Di solito un tennista non parla volentieri delle sconfitte, però questa è un’eccezione. Ricordo che, pur stanco dopo una semifinale lunga e faticosa, un pensierino al mio primo titolo Challenger l'avevo fatto. Speravo che l'emozione della prima volta giocasse brutti scherzi a Jannik e magari sentisse un po’ di pressione, invece non c'è stata storia. Fin dai primi game ha impostato il suo gioco molto aggressivo, velocità di crociera molto più alta di qualsiasi altro giocatore che avevo incontrato. Io in apnea, lui con le idee chiarissime: finì 6-3 6-1. Il palazzetto era stracolmo, tremila persone all’interno e anche tanta gente rimasta fuori. Ancor più della tecnica, mi colpirono la sua maturità e la gestione dei momenti. Ci siamo accorti di vivere un giorno speciale».

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