Piccinini: “Finale Juve-Milan 2003? La gara più stressante della carriera”

Dall’euroderby di Champions di 20 anni fa a questo: “Nella partita di Manchester, senza 25 anni di esperienza, non me la sarei cavata”
Piccinini: “Finale Juve-Milan 2003? La gara più stressante della carriera”© Getty Images/Ansa

MILANO - Incisività. Preparazione. Competenza. Sandro Piccini, semplicemente la voce del calcio. Dai terrazzi degli appartamenti limitrofi agli stadi, alla semifinale di Champions tra Inter e Milan, ancora una volta: «Ho cominciato nell’era pioneristica delle radio e delle tv private, quando non erano soggetti riconosciuti e non potevamo entrare nei vari impianti sportivi. Non eravamo giornalisti, era tutto un po’ abusivo. La Rai aveva l’esclusiva della radiocronaca, ma raccontava solo il secondo tempo. In pratica i tifosi, agli inizi degli anni ottanta, non sapevano come stesse andando la gara della propria squadra per i primi 45 minuti. Noi capimmo l’importanza della questione. E fu subito boom».

Un altro mondo.

«Non c’erano i cellulari, serviva un telefono fisso. Ci si doveva arrangiare: andare nella cabina dello speaker o trovarsi un balcone da dove seguire il match. Serviva una prolunga e il permesso di stare sul terrazzo. A volte ti portavi la ricetrasmittente ed eri in mezzo al pubblico. Alcune gare le raccontavi col binocolo. Anni avventurosi».

Una sorta di: «Buongiorno, sono Piccinini. Dovrei fare la radiocronaca della partita». Viene da sorridere...

«Andavamo a cercare queste persone in settimana. Il signor Fisco di Genova veniva a prenderci in aeroporto e ci offriva il caffè. Prendevamo 50 mila lira, all’epoca una bella somma. Ma non eravamo soli. Capitava che sui terrazzi ci fossero altri tifosi, che pagavano 10 mila lire per vedere da lì la partita. La vista era quello che era, non avevamo le formazioni, ci dovevamo arrangiare, una gavetta pazzesca».

Quale è stata la sua prima partita?

«Una della Roma per il calcio professionistico, una del Banco Roma e del Torre Maura per quello dilettantistico. Quando andavi nei campi minori ti coccolavano, in Serie A abbiamo sofferto le pene dell’inferno».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Oggi come si prepara alle partite?

«Ora è molto più comodo, devi però selezionare. In gare come Milan-Inter non serve dare molte informazioni, i giocatori sono conosciuti da tutti. Bisogna scegliere le notizie, non inondare di dati chi ti ascolta. La mia telecronaca è essenziale, più asciutta rispetto al passato».

Mangia e beve qualcosa di particolare?

«Mi comporto quasi come i calciatori. La sera prima non vado mai a cena fuori. Elimino l’alcool nei giorni precedenti al match. Anche la telecronaca è un fatto fisico, di riflessi e attenzione. Devi andare in postazione lucido e riposato. Il pomeriggio prima della partita il riposino è d’obbligo. Devi avere rispetto per il mestiere, ogni minimo errore viene enfatizzato».

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Juve-Milan, la finale di Manchester, è stato l’evento col maggiore share della storia italiana esclusa la nazionale e il Festival di Sanremo.

«Venti milioni di spettatori, circa l’80% degli italiani...».

Ha mai avuto ansia da prestazione?

«Certo, come no. Quella è stata la partita più stressante della carriera. Lavoravo per Mediaset, col Milan in finale contro la Juve: un tipo di bacino enorme di utenza. Lì se non ci fossi arrivato con l’esperienza e 25 anni di carriera alle spalle, non me la sarei cavata».

Quale è la telecronaca di cui va più fiero?

«Quel Milan-Juve lì. In rapporto alle difficoltà, è stata la partita che mi ha dato più soddisfazione professionale. Arrivammo in condizioni tremende allo stadio, c’erano 40°, il match andò avanti sino ai rigori».

Sciabolata morbida. Non va. Da dove nascono questi concetti?

«Strada facendo. Per termini che fotografassero la situazione con una o due parole. È inutile essere prolissi. Con ‘mucchio selvaggio’ descrivi perfettamente la bagarre in area su un corner. Se in trenta secondi elimi 5-6 parole e le moltiplichi per cento minuti, tutto è più godibile. Bisogna asciugare, ci sono anche la seconda voce e i bordocampisti».

Siete una squadra.

«L’affiatamento è fondamentale. Io mi sento il regista, il numero 10, deve mettere insieme tutte le componenti».

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Come vede Milan-Inter?

«Sono squadre molto vicine, con andamenti similari in campionato. L’Inter ha maggiore qualità nei singoli, il Milan si muove meglio. Queste partite sono legate agli episodi, è il bello della Champions. I nerazzurri hanno qualcosa in più sulla carta, ma non saprei dirle se siano i favoriti».

Chi può essere l’uomo decisivo?

«In queste gare non segna mai uno a caso. Devi puntare sul big: Leao, qualora recuperasse, Theo o Giroud da una parte, Lautaro, ma pure Dzeko dall’altra. L’esperienza conta, come nel mio mestiere».

Cosa pensa di Pioli e Inzaghi?

«Pioli aveva il credito dello scudetto vinto, non si è mai pensato a un suo allontanamento. Inzaghi si è salvato col passaggio del turno in Champions. Adesso non gli si può dire niente, poi se vogliono cacciarlo, lo cacceranno. In Italia guardiamo solo al risultato, ma la verità è che hanno già raggiunto un traguardo storico. Peccato solo che chi sarà eliminato passerà per perdente, ma non è così».

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E lei ha ancora un sogno?

«Mi sento ampiamente appagato, ma se devo sognare, le dico seguire un altro Mondiale. Sarebbe un bel modo di chiudere il cerchio».

Si aspettava di tornare in pista?

«Rivedo in Prime lo stesso entusiasmo dei primi anni a Mediaset, dovessimo entrare nel calcio italiano a livello di campionato faremmo bene. Se ci sono possibilità? Qualche voce c’è, qualcosa si è letto. Se la Lega preparasse qualcosa ad hoc, perché no?».

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MILANO - Incisività. Preparazione. Competenza. Sandro Piccini, semplicemente la voce del calcio. Dai terrazzi degli appartamenti limitrofi agli stadi, alla semifinale di Champions tra Inter e Milan, ancora una volta: «Ho cominciato nell’era pioneristica delle radio e delle tv private, quando non erano soggetti riconosciuti e non potevamo entrare nei vari impianti sportivi. Non eravamo giornalisti, era tutto un po’ abusivo. La Rai aveva l’esclusiva della radiocronaca, ma raccontava solo il secondo tempo. In pratica i tifosi, agli inizi degli anni ottanta, non sapevano come stesse andando la gara della propria squadra per i primi 45 minuti. Noi capimmo l’importanza della questione. E fu subito boom».

Un altro mondo.

«Non c’erano i cellulari, serviva un telefono fisso. Ci si doveva arrangiare: andare nella cabina dello speaker o trovarsi un balcone da dove seguire il match. Serviva una prolunga e il permesso di stare sul terrazzo. A volte ti portavi la ricetrasmittente ed eri in mezzo al pubblico. Alcune gare le raccontavi col binocolo. Anni avventurosi».

Una sorta di: «Buongiorno, sono Piccinini. Dovrei fare la radiocronaca della partita». Viene da sorridere...

«Andavamo a cercare queste persone in settimana. Il signor Fisco di Genova veniva a prenderci in aeroporto e ci offriva il caffè. Prendevamo 50 mila lira, all’epoca una bella somma. Ma non eravamo soli. Capitava che sui terrazzi ci fossero altri tifosi, che pagavano 10 mila lire per vedere da lì la partita. La vista era quello che era, non avevamo le formazioni, ci dovevamo arrangiare, una gavetta pazzesca».

Quale è stata la sua prima partita?

«Una della Roma per il calcio professionistico, una del Banco Roma e del Torre Maura per quello dilettantistico. Quando andavi nei campi minori ti coccolavano, in Serie A abbiamo sofferto le pene dell’inferno».

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