Da Pietrangeli a Panatta e Sinner: l'Italia e le finali della Coppa Davis

La storia del tennis azzurro nella competizione mondiale: sette volte a giocarsi il trofeo, mentre il Paese cambiava faccia, società, tagli di capelli e visione del mondo. Fino a Malaga 2023

LItalia scoprì il fascino della Davis dietro lo sguardo azzurro di Nicola Pietrangeli. Prima era riservata ai pochi praticanti del tennis, Nicola coi suoi modi da Peter Pan, giocoliere cosmopolita che con la racchetta sapeva fare di tutto, anche incantare, la trasferì sui rotocalchi, tra foto di belle donne un po’ meno castigate del solito e racconti del lieto vivere di chi se lo poteva permettere. I tennisti erano tra questi, anche i dilettanti, che se rinunciavano agli ingaggi dei promoter americani era perché qualcosa gli arrivava da altre parti.

Dalla parte di Nicola vi fu la Ignis, una delle azienda della ripresa italiana nel dopo guerra. L’importante era che con lui la Davis crescesse d’importanza, insieme al tennis. E la Coppa divenne la specialità di Nicola. Meglio, il suo destino…Diciotto anni di partecipazioni, 66 incontri, 164 partite, 78 singolari e 42 doppi vinti. Un record assoluto, mondiale. Arrivarono anche le prime finali italiane, nel ’60 e nel ’61, le prime delle sette che l’Italia ha giocato. Perse (4-1 e 5-0), è vero, ma entrambe sull’erba, fuori casa e contro la corazzata aussie di quei tempi - Fraser, Laver, Emerson -, la prima fra l’altro dopo aver rimontato da 0-2 e battuto gli States di Buchholtz e McKay nella finale interzone di Perth.

Il post Pietrangeli: ecco Panatta

Poi, finiti i lampi della classe eccelsa di Nick, fu necessario attendere. Non troppo, per la verità. Erano i Settanta, c’era aria di cambiamento, il Sessantotto faceva battere ancora i cuori di chi sperava che il Paese si schierasse per il nuovo invocato dalle masse giovanili. La borghesia, piccola e industriosa di allora, guardava al tennis come allo sport di un futuro migliore, assai meno tribale del calcio, più esclusivo e permeato di high class.

Fu Panatta ad aprire quelle porte, che ancora ampiamente sfruttiamo. A portare una racchetta in ogni casa. Non da solo, ma da capo-banda dei Ragazzi di Formia, formati da papà Mario Belardinelli, atto di nascita di una squadra di Coppa che vinse e molto di più avrebbe meritato di farlo. Ma nessuna delle quattro finali disputate si giocò in casa. Adriano, con Barazzutti, Belardinelli, Zugarelli, e i pochi che si aggiunsero, tra i quali Ocleppo e Claudio Panatta, restano convinti che se si fosse giocato più spesso in casa, le vittorie sarebbero state almeno due. Chissà, forse anche tre.

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Giocammo in Cile, vincendo (4-1). Poi vennero l’Australia (3-1 per gli aussies) con l’erba di Sydney e una tensione ormai evidente fra gli azzurri e Pietrangeli, sfociata nella defenestrazione del capitano. Due anni dopo si giocò a San Francisco, contro McEnroe e Gerulaitis (5-0), e l’Italia aveva perso da poco il nuovo capitano, Bitti Bergamo. Infine a Praga, dove i punti sparivano nelle folli chiamate dei giudici (4-1), e Adriano fu mandato a cambiarsi nel gabbiotto dell’uomo che controllava i biglietti, l’unico che avesse una stufa che riscaldasse l’ambiente. Chi entrava allo stadio, mostrava il biglietto, e poteva ammirare i glutei ignudi di Adriano. Ma era il 1980, e un’altra stagione del nostro tennis stava per finire.

Belardinelli e la scenata a Pietrangeli

Restano i ricordi del Cile, di Santiago, delle polemiche che precedettero la partenza. Pagine ormai note. Ma sempre belle da rileggere, per cogliere qualche ricordo, qualche particolare. La vigilia, per esempio…Era nervoso, Belardinelli, anche se non lo avrebbe mai ammesso. Quella finale era la sua più alta aspirazione e tutti i ragazzi la giocarono anche un po’ per lui. Un maestro che aveva allevato una nidiata di ragazzi come fossero figli suoi, insegnando loro a stare al mondo. Di fatto, in quei giorni fece anche una tremenda scenata a Pietrangeli, finì per sentirsi male e dovettero portarlo di corsa in ospedale. Il motivo era futile. Nicola, parlando con un giornalista (Silvano Tauceri) aveva spiegato che tutta la squadra stava bene, «solo Belardinelli è nervoso». Il giornale uscì proprio con quel titolo. «Belardinelli a nervi scoperti». Al “sor” Mario venne un coccolone. La mattina i ragazzi se lo ritrovarono al campo d'allenamento. Era scappato dall'ospedale.

1998, la finale persa contro la Svezia

L’ultima finale, la settima, fu l’unica “italiana”. La giocammo a Milano, era il 1998. Il gruppo, stavolta, era quello formatosi in buona parte a Riano, il centro tecnico voluto da Panatta. Bertolucci era il capitano. I ragazzi erano cresciuti tutti attraverso le loro esperienze professionali, ma l’amore per la Coppa giunse da quegli insegnamenti giovanili. Avversaria la Svezia di Norman, Gustaffson e del doppio numero uno Bjorkman e Kulti. Fu nel primo match, contro Norman. che Andrea Gaudenzi subì un brutto infortunio al tendine della spalla, verso la fine del match, sul 6 pari del quinto set. Impossibile continuare. Il resto fu un calvario. Tre a zero dopo il doppio. E da lì un nuova lunga attesa. Durata stavolta, venticinque anni.

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LItalia scoprì il fascino della Davis dietro lo sguardo azzurro di Nicola Pietrangeli. Prima era riservata ai pochi praticanti del tennis, Nicola coi suoi modi da Peter Pan, giocoliere cosmopolita che con la racchetta sapeva fare di tutto, anche incantare, la trasferì sui rotocalchi, tra foto di belle donne un po’ meno castigate del solito e racconti del lieto vivere di chi se lo poteva permettere. I tennisti erano tra questi, anche i dilettanti, che se rinunciavano agli ingaggi dei promoter americani era perché qualcosa gli arrivava da altre parti.

Dalla parte di Nicola vi fu la Ignis, una delle azienda della ripresa italiana nel dopo guerra. L’importante era che con lui la Davis crescesse d’importanza, insieme al tennis. E la Coppa divenne la specialità di Nicola. Meglio, il suo destino…Diciotto anni di partecipazioni, 66 incontri, 164 partite, 78 singolari e 42 doppi vinti. Un record assoluto, mondiale. Arrivarono anche le prime finali italiane, nel ’60 e nel ’61, le prime delle sette che l’Italia ha giocato. Perse (4-1 e 5-0), è vero, ma entrambe sull’erba, fuori casa e contro la corazzata aussie di quei tempi - Fraser, Laver, Emerson -, la prima fra l’altro dopo aver rimontato da 0-2 e battuto gli States di Buchholtz e McKay nella finale interzone di Perth.

Il post Pietrangeli: ecco Panatta

Poi, finiti i lampi della classe eccelsa di Nick, fu necessario attendere. Non troppo, per la verità. Erano i Settanta, c’era aria di cambiamento, il Sessantotto faceva battere ancora i cuori di chi sperava che il Paese si schierasse per il nuovo invocato dalle masse giovanili. La borghesia, piccola e industriosa di allora, guardava al tennis come allo sport di un futuro migliore, assai meno tribale del calcio, più esclusivo e permeato di high class.

Fu Panatta ad aprire quelle porte, che ancora ampiamente sfruttiamo. A portare una racchetta in ogni casa. Non da solo, ma da capo-banda dei Ragazzi di Formia, formati da papà Mario Belardinelli, atto di nascita di una squadra di Coppa che vinse e molto di più avrebbe meritato di farlo. Ma nessuna delle quattro finali disputate si giocò in casa. Adriano, con Barazzutti, Belardinelli, Zugarelli, e i pochi che si aggiunsero, tra i quali Ocleppo e Claudio Panatta, restano convinti che se si fosse giocato più spesso in casa, le vittorie sarebbero state almeno due. Chissà, forse anche tre.

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Da Pietrangeli a Panatta e Sinner: l'Italia e le finali della Coppa Davis
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Belardinelli e la scenata a Pietrangeli