Pugliese e la vittoria contro Herrera
Ma torniamo alla memorabile vittoria del suo Foggia contro l’Inter e a quando gli chiesero come si sentisse per aver avuto la meglio «della psicologia vincente» del Mago Herrera: «La psicologia è roba da ricchi, la grinta è roba da poveri». Perché Don Oronzo non ha mai dimenticato le sue origini contadine. Anzi, ha fatto della perseveranza e dal suo essere sanguigno le sue caratteristiche principali. Nei campi dove glielo permettevano arrivava in campo con una gallina al guinzaglio e la legava alla panchina. Altre superstizioni, riprese da Banfi nel cult movie degli anni ‘80, come quella di buttare il sale sul terreno di gioco e dietro la porta avversaria per allontanare il malocchio, erano all’ordine del giorno con lui. Gianni Brera lo definì «un mimo furente di certe grottesche rappresentazioni di provincia». Etichetta, quella di provinciale, affibbiatagli spesso dall’altezzosa opinione pubblica cittadina e che, sebbene non abbia mai rinnegato la propria provenienza (né geografica né sociale), Pugliese contestò a modo suo: «Mi dicono che sono un allenatore provinciale. Che significa? Vuol dire forse che io la laurea non ce l’ho? La laurea in giurisprudenza o in qualche altra diavoleria del genere? No, non ce l’ho. Ma quella in calcisticheria, sì che ce l’ho!».
La carriera di Pugliese
Il suo più grande cruccio fu quello di non essere riuscito a sfondare in una grande. Quando ebbe l’opportunità di allenare la Roma non andò come il mago dei poveri avrebbe voluto. Ma, non era colpa sua. A sostituirlo, infatti, fu il mago dei ricchi - sì, di nuovo lui, HH - che non raccolse di certo risultati migliori a quelli del suo predecessore. Dopo un paio di stagioni al Bologna, un’avventura nel suo Bari e una campagna alla Fiorentina, il declino inesorabile, di nuovo in provincia, lo condusse al ritiro forzato che arrivò a Crotone nel 1978. Quattro anni dopo un ictus lo costrinse sulla carrozzina che lo accompagnò lentamente verso la morte arrivata nella sua Turi nel 1990. Una sorta di contrappasso per tutti gli sprint fatti lungo la fascia laterale, per chiedere all’ala rivale di passargli la palla. Perché, come avrebbe detto Canà, «è una guerra psicologica la nostra». E lui, la sua, la vinse.
