Bergomi e la rivalità Juve: “Cambiò tutto con Moratti, Facchetti e Mazzola”

La leggenda dell'Inter compie 60 anni e si racconta: "Sacchi mi disse di aver sbagliato a non portarmi negli Stati Uniti"
Bergomi e la rivalità Juve: “Cambiò tutto con Moratti, Facchetti e Mazzola”© Claudio Zamagni

Beppe Bergomi, tanti auguri! Che 60 anni sono stati?
«Ho avuto una vita fortunata. Ho sempre cercato di divertirmi e giocare a calcio lo era. Dalla strada e l’oratorio sono finito all’Inter e in Nazionale, giocando quattro Mondiali. Tanti mi dicono che ho vinto poco, io rispondo che ho vinto il giusto, quello che meritavo e che sono rimasto per 20 anni a grandissimi livelli. Il pallone è la mia vita e lo è tuttora con Sky e la mia squadra di ragazzi all’Accademia Inter».

Come descriverebbe il Bergomi calciatore a quei ragazzi Under 30 che praticamente non l’hanno mai vista giocare, se non recuperando dei video in rete?
«Utilizzo una frase di Sacchi che mi fece saltare il Mondiale nel 1994. A distanza di anni, mi disse: “Con te ho sbagliato, perché tu eri uno applicato, attento, che imparava velocemente. Allora ragionavo da allenatore che non voleva perdere tempo e convocai i giocatori che conoscevano il mio sistema di gioco”. Io mi ritengo quello. Ho cercato di essere sempre un professionista serio, un punto di riferimento: ero un difensore che magari non arrivava a prendere 8, ma era fisso sul 6.5-7».

C’è un Bergomi oggi?
«Io mi rivedo un po’ in Di Lorenzo. Chiaramente è un calcio diverso quello di oggi, ma anche lui è uno concentrato, sul pezzo, non sbaglia quasi mai una partita. È intelligente e mai banale. E nel recente passato direi Barzagli».

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Oggi in quale ruolo giocherebbe?
«Per le mie caratteristiche mi vedrei da braccetto di destra alla Darmian».

Ripercorriamo velocemente la sua carriera con alcuni fermo immagine: la prima gioia?
«Il 6 settembre 1981, segnai il gol del 2-2 al Milan negli ultimi secondi in un derby di Coppa Italia che ci permise di superare il girone di qualificazione. Alla fine vincemmo in finale col Torino e per molti anni rimase l’ultimo successo dell’Inter in Coppa Italia (fino al ’04-05, ndr)».

La gioia più bella?
«Il Mondiale ’82, impossibile non sceglierlo. Sarò sempre grato a tutti i giocatori di quel gruppo e Bearzot, un secondo papà per me, il mio lo persi a 16 anni. Aggiungo anche lo scudetto dei record con l’Inter nel 1988-89. Quel titolo valeva tre di oggi perché ci confrontavamo con il Milan degli olandesi, il Napoli di Maradona, la Sampdoria di Vialli e Mancini, la Juventus, le romane, la Fiorentina di Baggio».

La sorpresa inaspettata?
«Il quarto Mondiale nel ‘98 in Francia. Il 6 maggio giochiamo a Parigi la finale di Coppa Uefa, ma io sono infortunato. In tribuna il ct Cesare Maldini mi chiama e mi dice: “Se guarisci ti porto al Mondiale”. Non giocavo in nazionale dal ’91, fu qualcosa di incredibile. In quel caso mi aiutò molto il cambio di ruolo che mi fece fare Gigi Simoni che mi trasformò in un libero, anche se lo interpretavo in una chiave un po’ più moderna, da marcatore come oggi sono i centrali della difesa a tre tipo Bremer, Buongiorno o Acerbi».

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La delusione più grande?
«Resto in azzurro: il Mondiale ’90 perché eravamo in Italia, eravamo forti, giocavamo bene. Quell’Italia-Argentina è una ferita ancora aperta, mi piange il cuore».

Lei è stato ed è tuttora una bandiera dell’Inter. Qual è stata l’avversaria di sempre?
«Inizialmente il Milan, perché già nelle giovanili mi confrontavo con loro. Il derby è la partita che ho giocato di più, 44 volte; soffrivo nel prepararla, ma poi che gusto giocarla. Quando però nel 1995 arrivò Moratti, lui insieme ai gradi ex della Grande Inter come Facchetti e Mazzola, cambiarono la nostra visione e ci dissero che la rivale storica era la Juventus».

I bianconeri per lei cosa hanno rappresentato?
«La nazionale, perché a livello di club negli anni ’80 non ci furono grandi duelli. Ma in azzurro le colonne del gruppo erano tutti juventini: Zoff, Scirea, Gentile, Cabrini, Tardelli, Paolo Rossi. Grandi uomini e grandi giocatori».

La tv è la sua nuova vita da oltre 20 anni.
«Mi piace molto commentare le gare perché ci metto la passione che avevo quando giocavo. Se devo scegliere, prendo le telecronache più che gli studi pre e post-partita, perché mi piace andare allo stadio, sentire l’atmosfera e far capire a chi guarda le mosse degli allenatori o prevedere cosa succederà nelle partite. Penso da seconda voce di aver cambiato il modo di fare le telecronache. Ho fatto tutti i corsi a Coverciano per avere il patentino di Serie A e per mantenerlo faccio quelli di aggiornamento, mi documento e poi sul campo con i ragazzi che alleno sperimento».

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Beppe Bergomi, tanti auguri! Che 60 anni sono stati?
«Ho avuto una vita fortunata. Ho sempre cercato di divertirmi e giocare a calcio lo era. Dalla strada e l’oratorio sono finito all’Inter e in Nazionale, giocando quattro Mondiali. Tanti mi dicono che ho vinto poco, io rispondo che ho vinto il giusto, quello che meritavo e che sono rimasto per 20 anni a grandissimi livelli. Il pallone è la mia vita e lo è tuttora con Sky e la mia squadra di ragazzi all’Accademia Inter».

Come descriverebbe il Bergomi calciatore a quei ragazzi Under 30 che praticamente non l’hanno mai vista giocare, se non recuperando dei video in rete?
«Utilizzo una frase di Sacchi che mi fece saltare il Mondiale nel 1994. A distanza di anni, mi disse: “Con te ho sbagliato, perché tu eri uno applicato, attento, che imparava velocemente. Allora ragionavo da allenatore che non voleva perdere tempo e convocai i giocatori che conoscevano il mio sistema di gioco”. Io mi ritengo quello. Ho cercato di essere sempre un professionista serio, un punto di riferimento: ero un difensore che magari non arrivava a prendere 8, ma era fisso sul 6.5-7».

C’è un Bergomi oggi?
«Io mi rivedo un po’ in Di Lorenzo. Chiaramente è un calcio diverso quello di oggi, ma anche lui è uno concentrato, sul pezzo, non sbaglia quasi mai una partita. È intelligente e mai banale. E nel recente passato direi Barzagli».

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