TORINO - C ’è un premio a cui Massimiliano Allegri è particolarmente affezionato e che in tanti non ricordano. Alcuni perché è indietro nel tempo; altri, invece, tendono a rimuoverlo perché smonta molte narrazioni sul suo gioco solo speculativo e sulla sua capacità di “gestire” e non di allenare. Quel premio è la Panchina d’oro che vinse in Serie A nel 2010 dopo la prima stagione alla guida del Cagliari. No, non aveva portato i sardi a nessuna vittoria (a differenza di quanto gli era riuscito al Sassuolo che aveva condotto in B, con cui aveva vinto la Coppa Italia di C e la Panchina d’oro di categoria) ma i colleghi lo premiarono per il bel gioco che esprimevano i rossoblù. Eh sì, una squadra dalla manovra ariosa con un tridente bello mobile con Cossu basso dietro alle due punte Matri e Jeda.
Allegri, il Cagliari e il Milan
Non era certo un lavoro da “gestore” quello che portava avanti Allegri, anche perché se così fosse stato, di sicuro Massimo Cellino non gli avrebbe perdonato una partenza devastante segnata da ben cinque sconfitte nelle prime cinque partite. Si sarebbe rifatto, il presidente, l’anno successivo esonerandolo quando però Max aveva ormai portato il Cagliari verso la salvezza e, raccontano, infastidito dal fatto di aver scoperto che l’amico Adriano Galliani aveva già scelto il suo allenatore per guidare il Milan.
L’approdo in rossonero ha segnato plasticamente l’avvio della nuova vita da allenatore di Allegri rispetto a quella iniziata sui campi dell’allora C2 prima e da “secondo” del suo mentore Giovanni Galeone poi. La scelta di Galliani fu vincente perché l’impatto di Allegri con il calcio dei grandi fu dirompente: subito lo scudetto che il Milan non vinceva da sette anni e l’inizio del dibattito, che in questi anni ha raggiunto il culmine con una assurda e illogica polarizzazione, su Allegri “gestore di campioni”.