Tardelli e la Juve meno famiglia: "Non puoi... Tudor senza fuoriclasse, Locatelli discontinuo"

L'intervista esclusiva a Schizzo, il suo passaggio dal Como alla Vecchia Signora, il momento che stanno vivendo i bianconeri e i prossimi Mondiali: "Sì, ma anche con Spalletti..."

TORINO - Cinquant’anni dopo, il cerchio si chiude. Domani al Sinigaglia il destino tornerà a bussare, portando con sé i colori del Lago e quelli dell’eternità bianconera. Como-Juve non è solo una partita: è un’eco di gioventù che rimbalza nel tempo. Marco Tardelli, allora un ragazzo che lasciava la quiete del “Lario” - come lo chiamano da quelle parti - per inseguire un sogno più grande, oggi guarda a questa sfida con gli occhi di chi ha visto tutto: la fatica, la gloria, la storia. In mezzo, la strada tortuosa del talento che si fa disciplina. Dell’ambizione che si misura con la grandezza. Da qui, è passato un ragazzo magro, dai tratti fieri, che avrebbe imparato presto cosa significa appartenere a qualcosa di più grande di sé.

Tardelli, dal Como alla Juve

Tardelli ricorda ancora il silenzio del Lago al mattino, le prime emozioni da professionista. Ma è a Torino che avrebbe trovato la sua voce, il suo soprannome - “Schizzo”, affibbiatogli simpaticamente da Luciano Spinosi -, la prima chiamata in azzurro, fino ad arrivare a quell’urlo diventato icona. Noi lo abbiamo sentito alla vigilia di questa sfida dal sapore antico. Nei suoi occhi c’è la nostalgia di chi sa che il tempo non si ferma, ma anche la serenità di chi può dire di averlo vissuto tutto. Marco Tardelli, 50 anni fa lasciava il Como per trasferirsi in una Juventus che - nel giro dei successivi 10 anni - avrebbe vinto 5 campionati, 2 Coppe Italia, 1 Coppa Uefa, 1 Coppa delle Coppe, 1 Supercoppa Uefa e 1 Coppa dei Campioni.

Che ragazzo era allora? E cosa pensava di lasciare - e di trovare - passando dal Lago alla Torino degli anni 70? «All’epoca avevo un certo timore nei confronti della Juventus. Di quella società. Ero solo un ragazzo che in due anni era passato dal Pisa al Como, dove ho trovato una bella famiglia con Beltrami e Beretta che mi hanno gestito alla grande. Io ero abituato a stare a casa, dovevo vivevo con i miei genitori. Provavo un po’ di nostalgia, ma loro mi hanno dato una grande mano in questo senso».

© RIPRODUZIONE RISERVATATutte le news di Juventus

"Juve, ecco cosa manca"

Per lei un bel salto in termini di ambizioni. Si potrebbe dire lo stesso oggi, alla luce del progetto che il Como ha avviato di recente? Insomma, la Juve rappresenta ancora quel “salto”? «Direi di no, ma semplicemente perché negli anni è cambiato tutto: il Como ora ha tutta un’altra dimensione. Fabregas allena una squadra vera e ambiziosa, tra le più forti del nostro campionato. E questo soprattutto perché alle spalle ha una società con grandi risorse economiche. Ai miei tempi era diverso: giocavamo in Serie B e la gestione societaria era familiare. Gli obiettivi erano altri…».

E che mi dice della Juve? In cosa la vede diversa? «Manca quell’impronta famigliare che l’ha sempre contraddistinta. Esiste ancora, sì, ma in una maniera ridotta. Non si può fare a meno di figure come Umberto Agnelli o dell’Avvocato… Ricordo quando entrai per la prima volta nell’ufficio di Boniperti: appena mi vide mi chiese di togliermi collanina e braccialetti vari e di andarmi subito a tagliare i capelli. Obbedii senza fiatare. Mi sembrava una richiesta più che normale per una società di quello status».

Pensa che questo aspetto abbia dei risvolti in termini sportivi? «Non saprei. Sono cambiate tante cose, non solo alla Juve ma in tutto il mondo del calcio. Oggi non parli più con i giocatori, ma con i rispettivi manager. Tutte le più grandi società a conduzione famigliare ora vengono gestite semplicemente per business».

Per anni ha giocato in una Juventus che faceva dell’identità azzurra e del senso di appartenenza i suoi principali punti di forza. Guardando alla rosa di Tudor, decisamente più internazionale, pensa che si stia sentendo la mancanza di quel gruppo di senatori italiani che ha sempre caratterizzato la storia del club? «Assolutamente si e non è retorica. Se alla Juventus non c’è più il giusto senso di appartenenza è anche per questo motivo. Tra i bianconeri ci sono giocatori seri che però, non essendo nati in Italia, non conoscono o non hanno vissuto in prima persona la storia del club. Indossano la maglia con professionismo, ma - inevitabilmente - con una dose di empatia incompatibile a quella che i vari Totti, Maldini e Del Piero hanno trasmesso per anni nei propri club. Chi arriva alla Juve - come nel resto delle squadre italiane - deve conoscerne a fondo la storia. Eppure questo non accade più».

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Tudor, Yildiz e l'attacco Juve

In Italia, tra le big, solo l’Inter vanta uno zoccolo azzurro. Penso a Barella, Bastoni, Dimarco, Acerbi... «Sì, e sono gli unici ad essersi quantomeno avvicinati alla vittoria della Champions. Non credo sia un caso. Avere un gruppo di senatori azzurri è un presupposto fondamentale. Ma non mi fraintenda: non sono contro gli stranieri. Al mio fianco ne ho avuti di straordinari nel corso della carriera. Quindi ben vengano, a patto che siano forti e che contemporaneamente si continuino a formare i giovani italiani. Non voglio più veder squadre di Serie A con 11 stranieri in campo».

Che idea si è fatto sulla Juventus di Tudor? «Semplice: che gli manchi un fuoriclasse in mezzo al campo. Un leader tecnico che abbia personalità. Come Platini. Yildiz potrebbe diventarlo, ma per adesso non è ancora in grado di gestire da solo la squadra».

A proposito di Yildiz, il suo amico ed ex compagno Platini di recente ha detto che gli piacerebbe vedere il turco - e in generale tutti i fantasisti d’Europa - in posizioni più centrali e non sulle corsie. Lei che ne pensa? «Non entro in merito alle scelte di Tudor: evidentemente se lo schiera lì è perché crede sia la posizione più giusta per lui».

E degli attaccanti che mi dice? Tudor ha detto più volte che sceglierà il titolare di giornata in giornata, alternando le tre punte tra le varie competizioni. A lei chi piace di più tra Vlahovic, David e Openda? «Dico Vlahovic senza alcun dubbio: ha dimostrato di essere quello con più gol nelle gambe. Ma va servito ed aiutato, altrimenti diventa impossibile incidere. Dusan per poter rendere deve poter sentire la fiducia dell’allenatore, dei compagni, dell’ambiente. Sento dire che il serbo è un giocatore “umorale”, ma chi non lo è?! Come fa a rendere al meglio se sente che chi lo circonda non lo ama? Per me Tudor deve scegliere cosa fare di lui: se fargli fare o meno il titolare, anche se credo che relegarlo tra le riserve sarebbe dannoso per la Juventus. Serve uno come lui, soprattutto perché nessun altro bianconero sembra in grado di fare meglio».

Beh, ci sarebbe David, l’attaccante su cui la Juventus ha deciso di puntare per il futuro... «Arriva dalla Francia, dove si gioca un calcio completamente diverso dal nostro. Lo voglio ripetere: per me deve giocare Vlahovic, almeno per dieci partite consecutive. Poi vedremo».

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Bremer ko, Thuram e Locatelli...

Una cosa è certa: nelle prossime gare non ci sarà Bremer, costretto allo stop per l’ennesimo infortunio... «Un’assenza che peserà e non poco: Gleison è un giocatore importante. Speriamo che recuperi nel più breve tempo possibile. Credo però che la Juventus a gennaio dovrà tornare sul mercato».

Anche Cabal, come l’anno scorso, è fermo ai box. Non pensa che l’infortunio di Bremer rappresenti l’assist per passare a quattro in difesa? «La fermo subito: a me parlare di numeri non piace. Un giocatore di Serie A deve saper fare tutto: giocare a tre e a quattro; avere qualità sia di destro sia di sinistro che di testa. Il modulo conta fino a un certo punto».

Ok, allora ritratto: non pensa che con questo assetto la Juventus fatichi tanto nella costruzione della manovra? Contro il Milan le tre punte hanno toccato 27 palloni in totale... «Neanche il Milan riusciva a esprimere un bel gioco, poi ha preso Modric e ha svoltato. La Juve a centrocampo non ha uno così. Locatelli, tutto sommato, sta facendo bene ma è discontinuo».

Che ne pensa di Khéphren Thuram? «Non è male, un buon giocatore, ma non ha le caratteristiche per costruire il gioco».

Mercoledì i bianconeri scenderanno in campo al Bernabeu per la sfida di Champions con il Real Madrid. Uno stadio che per lei avrà sempre un significato particolare. Non si finisce mai di parlare di quell’urlo liberatorio che la BBC, nel 2014, ha deciso di iscrivere al quarto posto nella classifica dei 100 più bei momenti della storia dei mondiali. Non è stanco di parlarne? «Assolutamente no. E perché dovrei?! Mi piace che la gente mi ricordi per quel gol alla Germania Ovest, dal momento che ci ha fatto vincere i mondiali».

Se lo riguarda ancora? «Ecco, no. Ho smesso anni fa. L’ho visto troppe volte».

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"Barella come me. Ai Mondiali anche con Spalletti"

C’è un giocatore tra gli azzurri di oggi in cui rivede - per verve, foga e spirito - il suo urlo? «Dico Barella: mi piace molto».

In passato ha detto che nulla la emoziona di più del vedere giocare la Nazionale. Come ha vissuto le due esclusioni mondiali? «Male, ovviamente. Diciamo che temevo potesse succedere: non abbiamo più talenti fuori dal comune, ma soprattutto non intravedo quella voglia sfrenata di vestire l’azzurro che avevamo noi. Ai miei tempi se rinunciavi alla chiamata della Nazionale per un presunto infortunio, saltavi la successiva di campionato. Era la regola».

Che ne pensa di Gattuso? «Un ct fantastico, è l’uomo giusto per la Nazionale».

Quindi ai mondiali ci andiamo? «Sì, ma ci saremmo andati anche con Spalletti eh. Gattuso è stato bravo a cambiare un ambiente saturo. È un allenatore con idee semplici, oltre ad essere un buon selezionatore».

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TORINO - Cinquant’anni dopo, il cerchio si chiude. Domani al Sinigaglia il destino tornerà a bussare, portando con sé i colori del Lago e quelli dell’eternità bianconera. Como-Juve non è solo una partita: è un’eco di gioventù che rimbalza nel tempo. Marco Tardelli, allora un ragazzo che lasciava la quiete del “Lario” - come lo chiamano da quelle parti - per inseguire un sogno più grande, oggi guarda a questa sfida con gli occhi di chi ha visto tutto: la fatica, la gloria, la storia. In mezzo, la strada tortuosa del talento che si fa disciplina. Dell’ambizione che si misura con la grandezza. Da qui, è passato un ragazzo magro, dai tratti fieri, che avrebbe imparato presto cosa significa appartenere a qualcosa di più grande di sé.

Tardelli, dal Como alla Juve

Tardelli ricorda ancora il silenzio del Lago al mattino, le prime emozioni da professionista. Ma è a Torino che avrebbe trovato la sua voce, il suo soprannome - “Schizzo”, affibbiatogli simpaticamente da Luciano Spinosi -, la prima chiamata in azzurro, fino ad arrivare a quell’urlo diventato icona. Noi lo abbiamo sentito alla vigilia di questa sfida dal sapore antico. Nei suoi occhi c’è la nostalgia di chi sa che il tempo non si ferma, ma anche la serenità di chi può dire di averlo vissuto tutto. Marco Tardelli, 50 anni fa lasciava il Como per trasferirsi in una Juventus che - nel giro dei successivi 10 anni - avrebbe vinto 5 campionati, 2 Coppe Italia, 1 Coppa Uefa, 1 Coppa delle Coppe, 1 Supercoppa Uefa e 1 Coppa dei Campioni.

Che ragazzo era allora? E cosa pensava di lasciare - e di trovare - passando dal Lago alla Torino degli anni 70? «All’epoca avevo un certo timore nei confronti della Juventus. Di quella società. Ero solo un ragazzo che in due anni era passato dal Pisa al Como, dove ho trovato una bella famiglia con Beltrami e Beretta che mi hanno gestito alla grande. Io ero abituato a stare a casa, dovevo vivevo con i miei genitori. Provavo un po’ di nostalgia, ma loro mi hanno dato una grande mano in questo senso».

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