Beatrice Lelli: "Io, in ospedale con Belotti: mi dà coraggio e forza"

Dal pronto soccorso di Castel del Piano, in provincia di Grosseto, la  toccante testimonianza di un'infermiera tra impegno, solidarietà e fede granata
Beatrice Lelli: "Io, in ospedale con Belotti: mi dà coraggio e forza"

«Sì, sono io: l’infermiera con scritto Belotti sulla schiena». «Due o tre giorni fa. Ero di turno di notte. Qui all’ospedale di Castel del Piano: un paese in provincia di Grosseto. Lavoro nel pronto soccorso. E ne avevo di nuovo sentito il bisogno. Di indossare quel nome, intendo. Già altre volte me lo ero fatto scrivere. Anche il numero, il 9. Quella notte avevo di nuovo percepito la necessità di aiutarmi psicologicamente. Per cui avevo chiesto a un collega di scrivermi Belotti sulla schiena. Bardati come siamo, non si riesce neanche a capire se sei un uomo o una donna. Per cui ci scriviamo i nostri nomi per individuarci. Io mi chiamo Beatrice Lelli. Ma ogni tanto sento il bisogno di trasformarmi nel Gallo. Perché è davvero molto duro il lavoro. E in questo periodo esci stremato, dopo turni estenuanti di 12 ore sempre a contatto dei malati. Ma noi in ospedale siamo una squadra. Grande e unita. Cerchiamo di dare sempre il massimo. Ed è fondamentale sapere di avere accanto persone motivate come te. Come il Gallo, quando gioca. Perché sai che puoi contarci sempre, su uno come Belotti: lotta assieme a te».

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«Siamo noi del pronto soccorso a comunicare ai pazienti l’esito del tampone, prima che siano spostati nel reparto giusto. Io e un medico. Ci avviciniamo al paziente. E se effettivamente si è contagiato...». «E’ tutto così difficile, doloroso. Ti svuota l’anima. E’ psicologicamente devastante, credetemi. La maggior parte delle volte il malato resta in silenzio. Ed è compito nostro comunicarlo anche ai parenti. Spiegare il dramma. Non prendere in giro nessuno, non illudere, ma anche cercare di trasmettere fiducia, speranza. Perché, Deo gratias, di Covid non si muore sempre. Anzi, quasi sempre si guarisce. Ma lo scopri solo dopo, se non muori. E subito ti assale il terrore. Per fortuna da noi non ci sono tantissimi casi gravi. Ma abbiamo avuto anche molti decessi, purtroppo».

«E l’altra notte ne avevo proprio bisogno, di Belotti. Di sentirmi come lui. Che combatte sempre, che ci mette la faccia e dà l’anima sino all’ultimo. A testa bassa, anche nel buio delle sconfitte. Per il Toro. Così me lo sono di nuovo fatto scrivere. E poi ho chiesto al collega di farmi una foto. E dopo l'ho spedita a un amico. Con l’idea che restasse lì. Una cosa tra noi. Ma lui ha cominciato a insistere: “Pubblicala su Facebook, sui social sei amica di tanti tifosi del Toro, vedrai che farà loro piacere, ti manderanno tanti bei messaggi”. Ma ero scettica. Una cosa così mia, intima, profonda psicologicamente... Così rispettosa: perché vi assicuro che dietro a tutto ciò c’è un grandissimo rispetto per la vita. E io avevo timore di poter essere equivocata da qualcuno. Come se il mio fosse un gioco non solo stupido, ma anche del tutto inappropriato e irrispettoso, in un ospedale. Comunque sia, alla fine mi sono lasciata convincere. E aveva ragione lui: perché tutti hanno capito il significato di quella foto. Cioè vita e speranza. Difatti ho poi ricevuto un mare di messaggi. Tutti belli. Di ringraziamento per quello che faccio e di incoraggiamento».

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