Juventus-Torino: sognando un derby vero, non più una favola triste

C'era una volta il derby (di Torino, altrove c’è ancora). L’abbrivio favolistico è il più esatto, l’unico: per chi è nato dopo la metà dei Novanta, trattasi di roba da fratelli Grimm, da Hans Christian Andersen, più ancora da Carlo Collodi, che con quel burattino dal nasone che s’allunga a ogni balla rievoca storie antiche, leggende popolari, tibie di Ferrini che s’incrociano coi malleoli di Beppe Furino, i polmoni di Tardelli gonfiati come gli attributi di Agroppi, colbacchi giagnoniani e riti apotropaici trapattoniani. L’abbrivio favolistico è il più esatto, l’unico e collima al bacio con quello storico: C’era una volta il derby (di Torino) e vai di vicende scolpite nell’epopea del pallone, pagine di storia, appunto, e di epica dal primo del 13 gennaio 1907 fino alla buca di Maspero, addì 14 ottobre 2001. Nel tomo, proprio di tutto: il ricco e il povero; il povero che s’ingegna fino a scalare l’Olimpo per superare il ricco sicché e sin che il fato lo punisce di tragedia in tragedia, infine pure quella greca; il padrone e la plebe; il bene contro il male, almeno per i tifosi granata; la potenza contro l’arte di arrangiarsi e di sopravvivere sempre e comunque. C’era un piccolo, tignoso toro di campagna contro il gigantesco drago, un’idra idrovora: eppure il piccolo animale sapeva salire sullo sgabello a quattro zampe (orgoglio, grinta, cuore, tremendismo) ed elevarsi sino a puntare gli occhi dritti nelle tante facce dell’idra. E quegli occhi sapevano fare paura, spesso, e sempre meritavano rispetto, onore, sempre brillavano di dignità.

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C’era una volta il derby (di Torino)

C’era una volta il derby (di Torino). Quando gli affari erano affari e si facevano, però con misura, se non erano evitabili o proprio necessari. E potevano saltare a furor di popolo. C’era una volta il popolo che contava, già. Forse basta C’era una volta il popolo. Saltavano gli affari, adesso si salta sugli affari. Si balla. Alleanze secondo convenienza. Un mercato, il mercato. Non che un tempo le due società si guardassero in cagnesco - talvolta pure -, ma dissimulavano, magari fingevano, i cartelli ‘vendesi’ e ‘al miglior offerente’ non stavano appiccicati direttamente sui numeri di maglia. Esisteva il pudore, una forma di rispetto (a differente grado di falsità, secondo le epoche) per il tifoso. Ipocrisia? Può darsi anche.

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C’era una volta il derby del tifo (di Torino)

C’era una volta il derby del tifo (di Torino). Un testa a testa vero, sanguigno, sentitissimo. E possibile, grazie a quello sgabello. Dislivelli economici, tecnici, numerici abissali e pressoché perenni, parità o quasi di battaglia, in battaglia. Ora che lo sgabello orgoglio + grinta + cuore + tremendismo è segatura, troppo troppo diversi gli interessi delle due sponde tifose, distanti e disparati gli sguardi. Il tifoso juventino mira l’Inter, il Napoli o non so che (non me ne intendo, non è il mio campo), quello del Torino Fc fatica a vedere in casa propria, per quanto si sforzi di credere che la traversata del deserto finirà. Dunque, il ‘gobbo’ deve impegnarsi per ricordare cos’era il suo derby e vieppiù dannarsi per pantomimarlo al giorno d’oggi. Il granata sogna, ci mancherebbe: almeno questo diritto nessuno può annientarlo. E a sua volta si sforza, ma per cercare sfottò derbistici ormai gli tocca scartabellare la biblioteca giuridica, frequentare le procure, chiedere assistenza allo juventino Paolo Brosio sia per l’esperienza ai tempi del Pio Albergo Trivulzio sia per le preghiere alla Madonna. Tristezza, insomma. C’era una volta il derby (di Torino). E che ci resta? Il derby di Torino, ovviamente: quella cosa che anche se non esiste più può regalarti di tutto, pescando a caso nella storia e nei valori che insegna, a volerli imparare. E vale per entrambe le parti. Tuttavia, da una delle due la renitenza a farlo è ormai conclamata, c’è un Dna modificato che soltanto un miracolo può riportare all’origine. Poche altre faccende sono dispensatrici di grazie e miracoli quanto i derby, se esistesse ancora questo derby. Quella cosa che, ripeto, anche se non esiste più può regalarti di tutto. Sin l’impossibile, che il Torino Fc diventi quel che non è mai stato: Toro. Se no, che miracolo è? Quale grazia? C’era una volta il derby (di Torino). E chi ci credeva (pure nei miracoli e nelle grazie).

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C'era una volta il derby (di Torino, altrove c’è ancora). L’abbrivio favolistico è il più esatto, l’unico: per chi è nato dopo la metà dei Novanta, trattasi di roba da fratelli Grimm, da Hans Christian Andersen, più ancora da Carlo Collodi, che con quel burattino dal nasone che s’allunga a ogni balla rievoca storie antiche, leggende popolari, tibie di Ferrini che s’incrociano coi malleoli di Beppe Furino, i polmoni di Tardelli gonfiati come gli attributi di Agroppi, colbacchi giagnoniani e riti apotropaici trapattoniani. L’abbrivio favolistico è il più esatto, l’unico e collima al bacio con quello storico: C’era una volta il derby (di Torino) e vai di vicende scolpite nell’epopea del pallone, pagine di storia, appunto, e di epica dal primo del 13 gennaio 1907 fino alla buca di Maspero, addì 14 ottobre 2001. Nel tomo, proprio di tutto: il ricco e il povero; il povero che s’ingegna fino a scalare l’Olimpo per superare il ricco sicché e sin che il fato lo punisce di tragedia in tragedia, infine pure quella greca; il padrone e la plebe; il bene contro il male, almeno per i tifosi granata; la potenza contro l’arte di arrangiarsi e di sopravvivere sempre e comunque. C’era un piccolo, tignoso toro di campagna contro il gigantesco drago, un’idra idrovora: eppure il piccolo animale sapeva salire sullo sgabello a quattro zampe (orgoglio, grinta, cuore, tremendismo) ed elevarsi sino a puntare gli occhi dritti nelle tante facce dell’idra. E quegli occhi sapevano fare paura, spesso, e sempre meritavano rispetto, onore, sempre brillavano di dignità.

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