Pagina 2 | "Cairo venda il Toro! Non vale nulla davanti a Pianelli. Moggi non sapeva..."

«Questo signore qui una ventina di anni fa mi diede una mazzata, quando mi chiamò per conoscermi e mi incontrò».

Questo signore qui: Urbano Cairo. All’inizio del suo ciclo.

«Andai a Milano, mi feci accompagnare da mia moglie. Ma alla fine dell’incontro mi disse una frase che mi fece rimanere di sale: “Lei, Pulici, è di difficile collocazione”. Mi ero già fatto un’idea abbastanza chiara su come ragionasse durante quella lunga chiacchierata, ma a quel punto, alla fine, non ebbi proprio più dubbi. E così gli risposi: guardi, allora è meglio lasciar perdere ogni discorso. Lo salutammo e uscimmo».

Anche sua moglie assistette all’incontro, quindi.

«Sì, certamente. Le avevo chiesto io di accompagnarmi, abbiamo sempre condiviso tutto e ci tenevo a sentire anche la sua opinione, dopo».

Sua moglie Claudia ha un’intelligenza fine e una forte personalità.

«Ma prima di partire da casa, da Trezzo, mi disse: “Paolo, ovviamente ti accompagno volentieri, però preferisco restare in silenzio, non dirò nulla. Ci parleremo poi dopo io e te, da soli”. E così fece. Con Cairo rimanemmo un paio di ore. Gli spiegai che cosa significasse essere del Toro, amare il Toro. Gli dissi che cosa rappresentava il Toro per me. E che cosa rappresenta per i tifosi. Gli diedi dei consigli. Rispettare i tifosi, non illuderli mai né prenderli in giro, programmare una crescita sostenibile nel tempo, ricreare un vivaio all’altezza, ricostruire il Filadelfia che era stato sciaguratamente ridotto in macerie, mantenere le promesse, curare e inseguire le ambizioni, essere all’altezza della storia gloriosa del club... Tutte cose di buon senso, insomma. Che mi uscivano dalla testa e dal cuore».

Dopo il fallimento del club di Cimminelli e la resurrezione con i Lodisti, quel Torino acquistato da Cairo era una scatola vuota: tutto o quasi da ricostruire.

«Tristissimo: il fallimento, la diaspora dei giocatori... Poi, per fortuna, la resurrezione del Torino 1906 con il Lodo Petrucci. Per cui davanti a Cairo si distendeva un mare di speranze e di potenzialità. Di belle cose da fare».

E lui cosa disse durante il vostro incontro?

«Poneva domande, commentava. Ogni tanto prendeva appunti. Finché, dopo quella lunghissima chiacchierata, se ne uscì con quella frase: “Lei, Pulici, è di difficile collocazione”. E poi ne aggiunse un’altra più o meno così: “Mi spiace, ma non saprei esattamente che ruolo proporle, che cosa potrebbe fare nel mio Torino”. Proprio così: Pulici era di difficile collocazione nel Toro, secondo lui».

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Il Toro, Cairo e Pianelli

Chissà sua moglie, brillante e schietta com’è, quando ha sentito quelle parole! «Infatti credevo che potesse scoppiare il finimondo! Ma Claudia mantenne la promessa e rimase in silenzio nonostante l’assurdità di quella tesi. Si morse la lingua. E la stessa cosa feci io. Mi limitai a rispondere quel: allora è meglio lasciare perdere tutto... Quindi lo salutammo e ce ne andammo. Poi, una volta all’aria aperta, dissi a Claudia: sappi che io non andrò mai a lavorare per lui... è evidente che gli darei fastidio... ce l’ha fatto capire... gli farei ombra... E Claudia, naturalmente, era della mia stessa idea. Poi rividi Cairo dopo parecchi mesi al Filadelfia, a una manifestazione pubblica. Con 10 mila tifosi sul prato, in mezzo ai ruderi del vecchio stadio. Il sogno di tutti era la costruzione di un nuovo centro sportivo. Cairo parlò al microfono da un palco montato apposta. Ma durante il suo discorso un continuo brusio di fondo si spandeva nell’aria... evidentemente ai tifosi qualcosa non tornava... Quindi toccò a me. E immediatamente calò un silenzio di tomba. Avevano tutti smesso di parlottare, quei 10 mila tifosi. Mi ascoltarono facendo subito un silenzio quasi irreale. Come se fossimo in chiesa! Tanto è vero che Claudia, dopo la manifestazione, mi disse ridendo: “Sembrava che i tifosi ascoltassero San Paolino del Toro! Invece, quando parlava Cairo...”. E quel silenzio per me, dopo il brusio della gente per lui, fu una bella soddisfazione: avevo ancora fresco nella memoria quell’incontro a Milano».

Domenica 1 dicembre: domani. Saranno 7.030 giorni di presidenza, per Cairo. Esattamente come Pianelli dal 1963 al 1982. Cairo raggiungerà nel calendario il grande Orfeo, finora il presidente più longevo nella storia del club granata. Detto questo, restano due presidenti, due Torino e due mondi assolutamente imparagonabili.

«Per come abbiamo imparato a conoscere Cairo, più che a raggiungere Pianelli ci terrà tanto soprattutto a superarlo, e poi restare presidente per molto altro tempo. Per poter dire: il più longevo sono assolutamente io, soltanto io... Realizzerà questo record cronologico, statistico, che però non vale nulla di fronte alla grandezza e alla gloria di Pianelli. E alla sua semina. Sarebbe una follia totale fare dei paragoni. Anche perché mi sembra che i tifosi per Cairo non esistano quasi, gli interessano poco i loro sentimenti: e direi che l’ha dimostrato in tutti questi anni, no?».  
 
Anche secondo lei sta soltanto raccogliendo quanto ha seminato?

«Sì, certo. Il dato dei giorni di presidenza è solo è un fatto statistico, numerico. Da un lato c’è la gloria di Pianelli, dall’altro una calcolatrice per contare i giorni trascorsi... Che però non contano nulla. Conta invece il modo in cui sei riconosciuto dai tifosi, cosa pensano di te, e ciò che hai fatto e fai per portare il Toro in alto. Quella semina che dicevo prima, insomma. E Pianelli era tutto l’opposto: i sentimenti e il suo amore per il Toro venivano prima anche dei suoi soldi, venivano prima di tutto. Negli Anni 60 fece crescere il club e la squadra in modo meraviglioso, quindi si mise in testa di dare l’assalto anche allo scudetto. E difatti continuò nella crescita senza vendere più nessuno del nostro gruppo... i Pulici, i Sala, gli Zaccarelli e via dicendo... pur di arrivare ad alzare il tricolore. Per amore del Toro, da tifoso vero qual era, voleva ottenere a tutti i costi quel risultato, anche rimettendoci tanti soldi. Difatti realizzò un sogno insieme a noi, nel 1976. Dopo già le Coppe Italia vinte, oltretutto».

Pianelli presidente: dal 1963 al maggio 1982. E lei nel Toro: dal 1967 all’estate dell’82, quando passò all’Udinese. Avete condiviso quasi interamente quei 19 anni.

«Basti dire che mi regalò il cartellino del mio tesseramento prima di andarsene. Quando vendette il Torino aveva il cuore che piangeva, non solo gli occhi».

Pochi lo sanno, Paolo. La raccontiamo bene questa cosa del cartellino regalato?

«Allora cominciamo da un primo episodio, utile per comprendere chi fosse Pianelli e che rapporto avessimo: un rapporto come tra padre e figlio, e non per modo di dire. Torniamo indietro a quando avevo 17 anni: 1967-’68, giocavo nella Primavera, ma ero già nell’orbita della prima squadra. Difatti avrei esordito nella stagione successiva. Ebbene, un giorno, da ragazzotto quale ero, litigai male, ma proprio di brutto, in allenamento con un compagno. Commisi una stupidaggine. Inesperienza, un po’ di immaturità... E poi giurai a me stesso: basta, lascio il Toro e me ne torno a casa».

E poi?

«Più tardi mi passarono il presidente al telefono. Pianelli mi disse che voleva parlarmi, mi invitò a recarmi in sede. Ma io avevo l’animo sottosopra... Così lo ringraziai, ma gli risposi che ormai avevo deciso e che non volevo fargli perdere altro tempo con un incontro. Però il giorno dopo un dirigente mi disse che sarei comunque dovuto andare da Pianelli in sede, che non potevo esimermi già soltanto per un fatto di educazione... Giusto: e così, pur convinto di aver già preso la mia decisione, ci andai, come da appuntamento. Bussai, entrai nel suo ufficio e con mia enorme sorpresa scoprii che vicino a lui c’era mio papà. Mio papà Silvio venuto apposta da Roncello. Lo aveva mandato a prendere Pianelli dal suo autista per portarlo a Torino. Il presidente mi invitò a sedermi: era chiaro che si erano già parlati e messi d’accordo. A quel punto parlò mio papà: “Paolo, mettiamo subito in chiaro una cosa. A Roncello tuo padre sono io, ma qui a Torino tuo padre diventa il presidente Pianelli e a lui devi obbedire, quando sei qui”. Una cosa incredibile! Pensai: e adesso come faccio a dire no a entrambi, non solo a uno ma addirittura a due... papà? E così sono rimasto nel Toro e sono diventato quello che sono diventato».

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Cairo, Pianelli e Moggi

Pupi, Puliciclone: il miglior marcatore della storia granata. Un simbolo vivente. Un nume tutelare amatissimo da tutti i tifosi: da sempre e per sempre. «Difatti la figlia di Pianelli, Cristina, nata 7, 8 mesi prima di me, mi chiamava fratellino. Ma poi successe un altro episodio fondamentale per il nostro rapporto. Ero già in prima squadra, ma ero ancora agli inizi. Fine Anni 60. Nell’intervallo di una partita, negli spogliatoi, Pianelli mi vide sul lettino mentre il medico mi stava applicando esattamente 53 punti di sutura alla tibia, dal ginocchio alla caviglia. E cuciva graffette vere, altro che i punti di oggi! Un avversario mi aveva squartato la gamba, immaginate il sangue e il dolore. Pianelli vide la scena, comprese il mio attaccamento, il mio coraggio pur di rientrare in campo, e di fronte a tutti disse: “Fino a che sarò presidente, questo ragazzo non lascerà mai il Toro”. E così fu. Ah, ecco... alla fine della partita, per la cronaca, i punti intonsi erano rimasti solo 12 di 53! Immaginate in che condizione era quella gamba!».

Il cartellino regalato, ora.

«Maggio 1982, Pianelli era a un passo dal vendere il Torino, doveva solo firmare. Venne a salutarci negli spogliatoi. Di nuovo di fronte a tutti disse: “Paolino, ti devo fare un regalo”. Non era da lui, pensai. Pianelli non faceva regali a un solo giocatore, lui premiava sempre tutta la squadra, se era il caso. Tirò fuori da una tasca il mio cartellino federale e me lo consegnò: “È la cosa migliore che io possa avere, Paolo. Ecco, te lo regalo, da oggi è tuo”. Rimasi impietrito per l’emozione, commosso. Poi la nuova società mi disse che potevo ritenermi libero, non rientravo nei programmi. Con la morte nel cuore e una rabbia pazzesca chiesi almeno di poter svolgere la preparazione estiva con i compagni per mantenermi in forma e trovare squadra. Comandava Luciano Moggi, con la nuova proprietà. E mi rispose: “No, non saprei dove metterti”. Ero di difficile collocazione anche per lui, insomma! Difatti fui costretto per diverse settimane ad allenarmi da solo: andavo a correre in campagna vicino a Orbassano... Poi un giorno mi chiamò l’Udinese, grazie a un amico massaggiatore che aveva cercato di aiutarmi, e andai a giocare lì».

Cairo in questi giorni ha detto che «venderà il Torino», se troverà qualcuno «più bravo e ricco» di lui.

«Ho letto, sì. Spero che abbia detto la verità. La gente è stufa di promesse non mantenute, non ne può proprio più, questa contestazione che perdura da agosto in crescendo ne è l’ennesima prova. I tifosi non vanno presi in giro. Chissà se Cairo manterrà per davvero ciò che ha detto. Mi auguro di sì, per il Toro e per la gente del Toro. Almeno quest’ultima promessa la mantenga, dopo aver detto in tutti questi anni che non avrebbe venduto i giocatori migliori... Ma poi li ha venduti, tutti, tutti, uno dopo l’altro. Altro che Pianelli e il suo sogno dello scudetto! Stavolta mantenga la parola, comprenda una buona volta che ha fatto il suo tempo. Venda il Torino a un acquirente serio e all’altezza, si faccia da parte. Rispetti i tifosi, adesso».

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Il Toro, Cairo e Pianelli

Chissà sua moglie, brillante e schietta com’è, quando ha sentito quelle parole! «Infatti credevo che potesse scoppiare il finimondo! Ma Claudia mantenne la promessa e rimase in silenzio nonostante l’assurdità di quella tesi. Si morse la lingua. E la stessa cosa feci io. Mi limitai a rispondere quel: allora è meglio lasciare perdere tutto... Quindi lo salutammo e ce ne andammo. Poi, una volta all’aria aperta, dissi a Claudia: sappi che io non andrò mai a lavorare per lui... è evidente che gli darei fastidio... ce l’ha fatto capire... gli farei ombra... E Claudia, naturalmente, era della mia stessa idea. Poi rividi Cairo dopo parecchi mesi al Filadelfia, a una manifestazione pubblica. Con 10 mila tifosi sul prato, in mezzo ai ruderi del vecchio stadio. Il sogno di tutti era la costruzione di un nuovo centro sportivo. Cairo parlò al microfono da un palco montato apposta. Ma durante il suo discorso un continuo brusio di fondo si spandeva nell’aria... evidentemente ai tifosi qualcosa non tornava... Quindi toccò a me. E immediatamente calò un silenzio di tomba. Avevano tutti smesso di parlottare, quei 10 mila tifosi. Mi ascoltarono facendo subito un silenzio quasi irreale. Come se fossimo in chiesa! Tanto è vero che Claudia, dopo la manifestazione, mi disse ridendo: “Sembrava che i tifosi ascoltassero San Paolino del Toro! Invece, quando parlava Cairo...”. E quel silenzio per me, dopo il brusio della gente per lui, fu una bella soddisfazione: avevo ancora fresco nella memoria quell’incontro a Milano».

Domenica 1 dicembre: domani. Saranno 7.030 giorni di presidenza, per Cairo. Esattamente come Pianelli dal 1963 al 1982. Cairo raggiungerà nel calendario il grande Orfeo, finora il presidente più longevo nella storia del club granata. Detto questo, restano due presidenti, due Torino e due mondi assolutamente imparagonabili.

«Per come abbiamo imparato a conoscere Cairo, più che a raggiungere Pianelli ci terrà tanto soprattutto a superarlo, e poi restare presidente per molto altro tempo. Per poter dire: il più longevo sono assolutamente io, soltanto io... Realizzerà questo record cronologico, statistico, che però non vale nulla di fronte alla grandezza e alla gloria di Pianelli. E alla sua semina. Sarebbe una follia totale fare dei paragoni. Anche perché mi sembra che i tifosi per Cairo non esistano quasi, gli interessano poco i loro sentimenti: e direi che l’ha dimostrato in tutti questi anni, no?».  
 
Anche secondo lei sta soltanto raccogliendo quanto ha seminato?

«Sì, certo. Il dato dei giorni di presidenza è solo è un fatto statistico, numerico. Da un lato c’è la gloria di Pianelli, dall’altro una calcolatrice per contare i giorni trascorsi... Che però non contano nulla. Conta invece il modo in cui sei riconosciuto dai tifosi, cosa pensano di te, e ciò che hai fatto e fai per portare il Toro in alto. Quella semina che dicevo prima, insomma. E Pianelli era tutto l’opposto: i sentimenti e il suo amore per il Toro venivano prima anche dei suoi soldi, venivano prima di tutto. Negli Anni 60 fece crescere il club e la squadra in modo meraviglioso, quindi si mise in testa di dare l’assalto anche allo scudetto. E difatti continuò nella crescita senza vendere più nessuno del nostro gruppo... i Pulici, i Sala, gli Zaccarelli e via dicendo... pur di arrivare ad alzare il tricolore. Per amore del Toro, da tifoso vero qual era, voleva ottenere a tutti i costi quel risultato, anche rimettendoci tanti soldi. Difatti realizzò un sogno insieme a noi, nel 1976. Dopo già le Coppe Italia vinte, oltretutto».

Pianelli presidente: dal 1963 al maggio 1982. E lei nel Toro: dal 1967 all’estate dell’82, quando passò all’Udinese. Avete condiviso quasi interamente quei 19 anni.

«Basti dire che mi regalò il cartellino del mio tesseramento prima di andarsene. Quando vendette il Torino aveva il cuore che piangeva, non solo gli occhi».

Pochi lo sanno, Paolo. La raccontiamo bene questa cosa del cartellino regalato?

«Allora cominciamo da un primo episodio, utile per comprendere chi fosse Pianelli e che rapporto avessimo: un rapporto come tra padre e figlio, e non per modo di dire. Torniamo indietro a quando avevo 17 anni: 1967-’68, giocavo nella Primavera, ma ero già nell’orbita della prima squadra. Difatti avrei esordito nella stagione successiva. Ebbene, un giorno, da ragazzotto quale ero, litigai male, ma proprio di brutto, in allenamento con un compagno. Commisi una stupidaggine. Inesperienza, un po’ di immaturità... E poi giurai a me stesso: basta, lascio il Toro e me ne torno a casa».

E poi?

«Più tardi mi passarono il presidente al telefono. Pianelli mi disse che voleva parlarmi, mi invitò a recarmi in sede. Ma io avevo l’animo sottosopra... Così lo ringraziai, ma gli risposi che ormai avevo deciso e che non volevo fargli perdere altro tempo con un incontro. Però il giorno dopo un dirigente mi disse che sarei comunque dovuto andare da Pianelli in sede, che non potevo esimermi già soltanto per un fatto di educazione... Giusto: e così, pur convinto di aver già preso la mia decisione, ci andai, come da appuntamento. Bussai, entrai nel suo ufficio e con mia enorme sorpresa scoprii che vicino a lui c’era mio papà. Mio papà Silvio venuto apposta da Roncello. Lo aveva mandato a prendere Pianelli dal suo autista per portarlo a Torino. Il presidente mi invitò a sedermi: era chiaro che si erano già parlati e messi d’accordo. A quel punto parlò mio papà: “Paolo, mettiamo subito in chiaro una cosa. A Roncello tuo padre sono io, ma qui a Torino tuo padre diventa il presidente Pianelli e a lui devi obbedire, quando sei qui”. Una cosa incredibile! Pensai: e adesso come faccio a dire no a entrambi, non solo a uno ma addirittura a due... papà? E così sono rimasto nel Toro e sono diventato quello che sono diventato».

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